domenica, Novembre 24, 2024

In grazia di Dio di Edoardo Winspeare: la recensione

Se ci limitassimo a guardare l’ultimo film di Edoardo Winspeare con occhio semplicistico, diremmo che esso si inquadra nel filone in auge da qualche anno. Quel filone che, come per buona norma e regola del cinema, tende a riflettere la situazione di crisi del nostro paese.

Una piccola azienda sartoriale a conduzione familiare è costretta a chiudere i battenti, surclassata dalla concorrenza cinese. L’unico fratello decide di lasciare l’Italia, in cerca di un impiego più propizio, mentre le due sorelle, Adele e Maria Concetta, vendono la casa e si trasferiscono in campagna con la madre. Con loro c’è anche Ina, figlia di Adele, ragazza sfaccendata e dedita ad una vita vuota e priva di valori. Ben presto però, tra imprevisti e difficoltà, la famiglia riuscirà sempre più a consolidarsi. Un’armonia che coinciderà, significativamente, con il ritorno alla vita rurale.

In un’ottica più circostanziata, la crisi che è input e fa da sfondo alle vicende, risulta un pretesto per raccontare qualcosa di più profondo, più intimamente radicato nei recessi atavici dell’umanità. Estremamente rilevanti risultano, a tal proposito, molti dettagli della storia e l’abile tessitura di intrecci che Winspeare attua dal punto di vista registico. Paralleli tra famiglia e origini, tra terra fertile e nucleo femminile, tra sacro e recitazione, tra giovane e vecchio, tra amore e sesso. Un racconto strutturato come un dittico quindi, dove le parti si contrastano e compenetrano.

In un Paese corrotto, dedito alla speculazione e al guadagno ad ogni costo, le forzate alternative che si prospettano alla famiglia sommersa dai debiti sono due: abbandonare definitivamente il Paese, come farà il fratello, o ricominciare da capo, recuperare e ritornare alle essenziali peculiarità che rendono bella, non solo l’Italia, ma la vita stessa. Un ritorno quindi alle radici, nel senso più esteso del termine.

Un film che nella sua composizione estetica rimanda ai lavori di Michelangelo Frammartino: il fruscio del vento tra le fronde e il lento carrello che avanza lungo la stradina silenziosa di campagna, che compare come intermezzo all’incedere sempre più accelerato delle vicende, quasi a scandire il progressivo processo di involuzione, di distacco dalla città e immersione nella campagna. Tutto in piena sintonia con la filosofia animista sottesa ai lavori di Frammartino, come Le quattro volte e soprattutto Alberi.

Questo cammino verso un regresso dell’umanità è scandito anche dai numerosi accenni alla Grecia, patria della civiltà, all’associazione di quei luoghi del Salento alle brulle coste elleniche. Ma è anche un distacco, come si è detto, dalla dipendenza del demone denaro; ed ecco che Winspeare mette in rilievo questo sviluppo, facendo seguire alla frustrante scena nell’ufficio dell’Equitalia (pronta a privare fino all’ultimo centesimo la povera famiglia), la scena in cui Adele risarcisce il lavoro di un operaio con i prodotti della terra. Quasi un ritorno al baratto, si direbbe. L’utopistica visione di un mondo che forse funzionerebbe meglio se riuscisse a distaccarsi dalla dipendenza della moneta e ritornasse a dare valore a ciò che ci offre “madre terra”.

In grazia di Dio è quindi sì un specchio della reale situazione in cui versiamo, ma è ancor più vero per come impostato. I dialoghi in dialetto salentino, che rimandano a L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi – non a caso maestro dello stesso Frammartino –, il riferimento alle piccole realtà imprenditoriali, i bellissimi luoghi incontaminati, tutto contribuisce ad accrescere quella percezione di verità. Più che uno specchio, una vera e propria finestra sul mondo è questo film.

Ma Winspeare non si distacca dalla sua impronta autoriale. Anche in questo film, come in Il miracolo (2003), il bisogno del sacro si palesa in chiave quasi ironica. Maria Concetta, sorella minore, aspira a diventare attrice nonostante il suo aspetto fisico sia agli antipodi della star hollywoodiana. Le sue esperienze recitative si svolgono però unicamente in occasione di rappresentazioni sacre. Una concomitanza tra recitazione e sacro che esprime quella necessità di immaginare, sognare, evadere dalla dura realtà. La rinuncia al suo sogno coinciderà, in forte carico allegorico, con l’accettazione del suo ruolo nella piccola famiglia campestre, e con il consequenziale distacco dalle cose terrene; come arriverà a comprendere anche l’indolente Ina citando la filosofia stoica e la vita etica di Kierkegaard.

Il senso spirituale che raggiungeranno le donne sarà quindi una visione immanente di Dio, da ricercare nella natura, nella terra, negli alberi, nei frutti, e non più in riti o in falsi idoli. La grazia di Dio è quindi rintracciabile attraverso il godimento del suo creato, ormai raggiungibile solo tramite la sottrazione di tutto ciò che nella società contemporanea ci impedisce di giungere all’essenza. Come a dire che dopotutto la crisi può avere anche dei lati positivi, forzandoci a questo processo di privazione.

Andrea Schiavone
Andrea Schiavone
Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.

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