martedì, Novembre 5, 2024

In the box di Giacomo Lesina: la recensione

Una donna si risveglia all’interno di un’automobile rinchiusa in un garage. Non sa dove si trova e come ci sia finita. La voce del suo rapitore, tramite un telefonino sconosciuto, le rivela di averla condannata a morte sicura per mezzo delle esalazioni di anidrite carbonica dell’auto perennemente accesa, a meno che lei non riesca a trovare l’unica soluzione per uscire dal box, come in un terrificante e sadico enigma mortale.

Efficace e ben elaborato esempio di luogo-trappola, in questo film a basso costo di Giacomo Lesina, il box si trasforma da spazio ordinario a spazio inesistente, non percepito. Spazio assente e di assenza, gremito di elementi così tangibili da divenire tossici, ma che rimanda al contempo all’astratta dimensione mentale. Lo spazio che contiene il personaggio è un recipiente di solitudine; il box diventa così dimensione privante per eccellenza, dove chi lo vive non capisce perché stia avvenendo ciò che sta avvenendo; il box è il garage, spazio domestico e no, luogo liminare tra la casa e la strada, tra il dentro e il fuori, tra la luce e il buio, tra la coscienza e l’inconscio; ma è anche una scatola chiusa, emblema dell’enigmaticità dell’esistenza, lì dove sembra racchiusa la verità ultima ma imperscrutabile al tempo stesso: il paradosso del gatto di Schrodinger guarnito di una patina thrilling.

In questo spazio angusto, oscuro ma familiare, si manifesta l’ineludibile discesa della protagonista in una situazione perturbante. Un luogo claustrocentrico e claustrofobico, spogliato dalle sue connotazioni securitarie e divenuto covo incubico in cui si annidano ombre misteriose e terribili, spettri della coscienza che riemergono dal passato per tormentare il presente, che corrodono l’esistenza fino a sgretolarla del tutto con i rimorsi e i rimossi. Il box si fa spazio della mente in cui prolificano i conflitti morali, si affrontano le proprie colpe e ritornano a galla i propri crimini, rimettendo in discussione ogni certezza, ogni falsa speranza di redenzione.

Guardando In the box è impossibile non pensare a film altrettanto claustrofobici, come Cube di Vincenzo Natali, Panic Room di David Fincher o alla saga horror di James Wan e Leigh Whannell: Saw. Ma allo stesso tempo, questa produzione italiana ci sembra epurata da quei risvolti splatter spesso degeneranti in “torture porn”, e anzi arricchita ed edulcorata da una più complessa filigrana psicologica.

In ultima analisi viene quindi da chiedersi se l’unica aspettativa di salvezza offerta dal maniaco di turno sarà rintracciabile realmente nei ristretti spazi in cui si è costretti oppure al fondo di un percorso travagliato e a ritroso nella propria coscienza. Un film che, proprio grazie a questo messaggio, si pone forse al di sopra di quelle pellicole hollywoodiane fatte di eccessi e abusi.

Andrea Schiavone
Andrea Schiavone
Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.

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