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In viaggio con Jacqueline di Mohamed Hamidi: la recensione

La Vache, titolo italiano In viaggio con Jacqueline, del regista francese di origini algerine Mohamed Hamidi, è un road movie pastorale. Anche se l’etichetta, nel suo accostare un sottogenere contemporaneo a evasioni letterarie rinascimentali, potrebbe apparire bizzarra è, in fondo, la più vicina al vero. C’è al centro del film, in questi giorni nelle sale, un uomo in viaggio: è un contadino di nome Fatah, proveniente da un minuscolo villaggio algerino dove vive in un microcosmo domestico al femminile, con la moglie, le due figlie, la mucca Jacqueline, che lui ama follemente e cura con devozione maniacale.

Per partecipare al prestigioso salone dell’agricoltura di Parigi, «la Mecca dei contadini», s’imbarca con l’adorato bovino alla volta di Marsiglia e, una volta arrivato in suolo francese, pazientemente raggiunge a piedi l’agognata capitale raccogliendo sulla strada un artistocratico afflitto, campione di buone maniere e garbate premure, e il cognato da tempo inserito nella società francese con tanto di moglie indigena e biondissima, colpevolmente nascosta alla famiglia d’origine. Il riferimento all’idillio pastorale non riguarda, però, solo il fatto che si tratta di un film di contadini e scenari bucolici, di passione per la terra e i suoi ritmi placidi, ma anche la sua dimensione manifestatamente favolistica. Ci troviamo in un mondo fittizio, il piano del sogno e del mito, eppure, allo stesso tempo, quello spazio alternativo al reale stilizza i nervi scoperti, i furori e le rivendicazioni indocili di una società che, al di fuori della gratificazione da commedia, pulsa, rumoreggia, sanguina.

La Vache è un film che, certamente, non si tiene al riparo dagli stereotipi: gli algerini sono caotici e anarchici laddove i francesi hanno senso dell’opportunità e dell’ordine civile; gli algerini sono pudichi laddove i francesi sanno parlar d’amore e non se ne vergognano; gli algerini accettano, con bonaria, quasi divertita rassegnazione, i guai della vita laddove i francesi corrugano la fronte, protestano, si deprimono. La visione, più che manichea, è, però, polarizzata e non c’è mai antagonismo tra i due codici culturali, solo reciproca fascinazione, un istinto di tenerezza senza ombra di rancori coloniali. Il dialogo in cella tra Fatah e il conte Philippe sulla depressione che patisce quest’ultimo, scaricato dalla moglie e incapace di reagire a problemi e solitudine, è un saggio di economia nella scrittura cinematografica non tanto espressiva quanto contenutistica ed è, chissà, anche un po’ svilente nel ricondurre a stilema culturale una questione naturalmente più complessa nel suo viluppo di concause fisiche e impalpabili.

Ma le molte ingenuità della sceneggiatura, anch’essa in viaggio verso la Mecca, quella della sicura indulgenza del pubblico, non impediscono di leggere questa fiaba moderna nel modo moralmente ed emotivamente più appagante, come una lettera d’amore simile a quella che Fatah spedisce alla moglie arrabbiata e lontana, una lettera d’amore alla Francia, alla storia del suo pensiero, alla tradizione filosofica che, da Montaigne in poi, coraggiosamente difende le ragioni dell’accoglienza, della tolleranza, dell’uguaglianza, pagando spesso, per questo, il prezzo umanamente più alto. La Vache, a grattare la glassa che lo sigilla, è, allora, in verità, un film molto politico, il messaggio in bottiglia inviato a un paese che, di fronte alla crisi della democrazia liberale, affretta le risposte in una caccia al barbaro senza bottino, rinnegando, prima ancora che un ideale umanitario, la propria identità di stato aperto e storicamente insofferente all’ingiustizia sociale e all’esclusione

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