venerdì, Novembre 22, 2024

Indigène d’Eurasie di Sharunas Bartas Berlinale 60 – Forum

20105896_1Belli e tenebrosi i film di Bartas. Ricordiamoli: Trys dienos (1991), Koridorius (1994: Bartas recita in un parte minore), Few of Us (1996), A Casa (1997, con Valeria Bruni Tedeschi e Leos Carax), Freedom (2000), Septyni nematomi omone (2005). Tutti titoli festivalieri, perfettamente integrati nella triangolazione Cannes-Venezia-Berlino. Pellicole di monosillabi e piani sequenza, di flutti e bugigattoli, di natura selvaggia e (rada) umanità allo sbando. Bartas è da sempre un nome di nicchia con uno zoccolo duro di seguaci. Se dici Baltico, dici Bartas. Fino a qua tutto bene. Poi uno vede Indigène d’Eurasie e gli viene un dubbio, legittimo. Ma Bartas non era quello del rapporto uomo-natura, dei piani infiniti, del rischio ipnosi (o pennichella?). Non era un Autore da Fuori Orario, in cui tuffarsi come Jean Dasté nel canale? Lo era almeno fino a Freedom, passato in concorso a Venezia. Ora le cose sono cambiate, e il press kit lo conferma. Con questo nuovo film, Bartas sceglie la strada del cinema narrativo e fa parlare i propri personaggi. Non pago, si autopromuove registattore (protagonista) e s’infila una pistola nelle braghe. Benvenuti nel magnifico mondo della mafia russa.Girato tra Parigi, Mosca, Vilnius e dintorni, il film è un’esperienza shockante per chi ama il Bartas dantan. La trama, confusa e protopulp, fa leva su tre elementi. Uno. Il fascino maramaldo della mala d’Oriente. Due. Il fascino provocante delle due co-protagoniste, Elisa Sednaoui e Klavdia Korshunova. Tre. Il fascino maledettista dell’attore Bartas, una via di mezzo tra Dolph Lundgren e Clint Easwood nella sua espressione “senza cappello”. Il resto è messa in scena ritrita, eccesso di primissimi piani gratuiti e un capitombolo dietro l’altro nel ridicolo involontario. Il sesso non manca, anzi il regista ci tiene a mostrare pure le chiappe, così come non mancano le pistolettate e una voce off (indovinate di chi) che sputa sentenze in un francese bagnato dalle acque del Baltico. Della serie sono un criminale nipote di un criminale, vivo alla giornata, la vita è breve, non sai mai che cioccolatino ti tocca. Il titolo “internazionale” del film è Eastern Drift, che sembra proprio strizzare l’occhio a Eastern Promises. Per un progetto armato di uno straccio di aspettative commerciali, non è un caso. Peccato che il film sia sbarcato a Berlino dopo essere stato rifiutato a Venezia l’anno scorso, e che le buone intenzioni narrative del suo autore abbiano dato esiti catastrofici. Nel complesso, un film furbastro e maldestro, dalla confezione invitante. Alla proiezione per i giornalisti, la signorina dell’ufficio stampa ha dichiarato che regista e attori sarebbero stati disponibili per interviste e domande di qualsiasi tipo per tutta, dico tutta, la durata del festival. Una disponibilità sospetta da parte del Vate del Silenzio e dell’Oscurità. Indigène d’Eurasie è una storia di droga, di soldi, di sigarette e di uomini e donne dalla mala sorte. Si apre con una scena di spaccio su un molo, si conclude col dettaglio di un telefonino insanguinato e raggiunge lo zenith grazie a una caccia all’uomo nei boschi bielorussi con un Bartas come mamma l’ha fatto che piange e ride rannicchiato davanti a un focherello. Il rischio numero uno che corre un bel tenebroso è aprire la bocca e dire una sciocchezza in falsetto. Che poi tutti dicono: avrebbe fatto meglio a tenere la bocca chiusa.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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