Home alcinema Inside Out – l’incontro con il regista Pete Docter

Inside Out – l’incontro con il regista Pete Docter

Il Centro di Controllo della mente di Riley, una ragazzina di 11 anni, è localizzato nel Quartier Generale, dove cinque Emozioni (Gioia, Paura, Rabbia, Disgusto e Tristezza) sono al lavoro per garantire la felicità della ragazza. Quando Riley deve trasferirsi con la sua famiglia in una nuova città, le Emozioni si mettono subito al lavoro, desiderose di guidarla attraverso la difficile transizione..ma qualcosa non andrà per il verso giusto.

Il regista Pet Docter spiega molti retroscena e significati del film durante la conferenza stampa allestita per la stampa romana.

Raccontaci come nasce un’idea così particolare all’interno di un pull creativo così complesso e affascinante come quello della Pixar.

L’idea di rendere le emozioni come personaggi veri e propri mi è venuta osservando mia figlia, che dà la voce a Eli nella versione originale di Up, e mi sono reso conto che effettivamente lei è esattamente così. Mentre la osservavo era esattamente come il personaggio, ma fino all’undicesimo anno di età. Compiuti gli undici anni, all’improvviso, mia figlia ha incominciato a cambiare, ad avere gli atteggiamenti classici della ragazzina un po’ chiusa in sé stessa. Mi continuavo a chiedere che cosa le frullasse per la mente, che cosa avesse in mente. A dire il vero anche io da ragazzino avevo vissuto questa stessa esperienza, tutti quanti noi crescendo proviamo le stesse cose.

 Nel momento in cui stavate sviluppando la storia, non è mai stato messo in discussione di rappresentare le emozioni umane come quello che solitamente invece crediamo essere la parte più fredda della società, cioè come una fabbrica, un’azienda. Avete pensato anche a un altro tipo di struttura oppure no?

In realtà quando abbiamo sviluppato l’idea di rappresentare le emozioni, di farne dei personaggi, abbiamo cominciato a chiederci come potessimo rappresentarli. Una cosa è stata chiara sin dall’inizio: io sto rappresentando la mente, non sto rappresentando il cervello con i suoi vasi sanguigni, dendriti e cellule. Quello che dovevamo rappresentare era un qualcosa di più astratto da trasformare poi in qualcosa di più concreto. All’inizio abbiamo pensato potesse essere un teatro, con il palcoscenico, il dietro le quinte e i camerini, però l’idea non funzionava. Poi abbiamo pensato a una nave dove ci sono gli alloggi per il comandante e per il personale, la sala motori, ma anche questa idea non ha funzionato. Quello che cercavamo era una metafora che potesse rappresentare la mente umana e così, man mano, abbiamo elaborato quello che poi vedete nel film.

Ci sono stati degli autori di rifermento che vi hanno ispirato nella realizzazione dei vari personaggi?

Io amo i cartoni di Chuck Jones e Tex Avery, li ho guardati e riguardati. Ce li ho proprio nel sangue, mi scorrono sottopelle. Noi abbiamo cercato di esprimere attraverso il movimento i sentimenti in una maniera forse ancor più profonda di quanto non si potesse fare con il corpo umano, creando una specie di caricatura. Ovviamente abbiamo preso questi autori come dei riferimenti, da Chuck Jones a Tex Avery, passando per Jack Kinney che ha diretto alcuni corti di Pippo e in qualche modo, alla nostra maniera, abbiamo voluto rendere loro omaggio.

Pensi che Inside Out sia un po’ la summa dei film Pixar?

Qualcuno ha scritto online: “se i giocattoli avessero sentimenti? Se le macchine avessero dei sentimenti, se Buzz avesse dei sentimenti e se i sentimenti avessero dei sentimenti?” e devo dire che l’ho trovato abbastanza originale e divertente. Quando decidiamo di fare un film, il nostro obiettivo finale, a prescindere dall’argomento o dal soggetto del film, è fare in modo che il pubblico provi emozioni. Con questo film in un certo senso ci siamo spinti oltre, forse più di quanto avessimo fatto con gli altri film della Pixar, perché questi personaggi hanno la caratterista di un cartone animato, ma in senso molto più ampio, e perlustrano delle aree che forse avevamo indagato poco in precedenza.

Il volo finale tra Gioia e Paura è un’omaggio al volo di Woody e Buzz del primo Toy Story?

Cerchiamo di realizzare sempre dei film che siano molto diversi gli uni dagli altri. Se con il film che stiamo realizzando abbiamo la percezione del fatto che ci stiamo avvicinando troppo al precedente, cerchiamo di allontanarci e di fare qualcos’altro. Quindi no, abbiamo cercato di realizzare qualcosa di diverso.

Vi siete per caso ispirati, in parte, allo short movie di propaganda della Disney degli anni Quaranta Reason and Emotion?

Sì. Reason and Emotion è un riferimento a Illusion Of Life, un libro di Frank Thomas e Ollie Johnston, che è un po’ la Bibbia per tutti coloro che si occupano di film di animazione. È molto divertente perché in realtà si tratta di personaggi caricaturali ma in un certo senso esagerati. Uno dei miei produttori mi ha detto: “Se riusciamo ad azzeccare questo film, con questi personaggi, riusciremo a realizzare sicuramente la nostra versione dei sette nani”…così abbiamo realizzato queste personalità caricaturali ma con le loro idee e opinioni.

Volevo sentirla parlare del bellissimo messaggio contenuto nel film: non ci può essere la gioia se prima non c’è la tristezza

Fondamentalmente è ovvio che tutti quanti noi vorremmo poter avere sempre una vita felice, da genitori vorremmo che i nostri figli fossero sempre felici, però purtroppo non è sempre così. Nella vita non c’è soltanto la felicità e la gioia. C’è la delusione; c’è la perdita; ci sono delle difficoltà; ci sono dei problemi. La ragione per la quale esistono questi altri sentimenti è anche quella, sebbene negativa, delle emozioni dalle quali cerchiamo di allontanarci, ma che ci servono comunque ad affrontare le complessità e le difficoltà della vita. Siamo tutti cresciuti con i film Disney e tutti desidereremmo sempre il lieto fine, ma nella vita poi non è così. Ci sono anche questi sentimenti con i quali bisogna convivere.

A proposito della parte più adulta del film, quella dell’inconscio e del subconscio. Ci sono molte citazioni in merito, alcune anche molto divertenti. Quanto vi siete divertiti a costruire queste scene che poi hanno anche un fondamento psicoanalitico?

Ci siamo divertiti alla grande leggendo e studiando Freud e Jung, anche se devo dire che non è stata una cosa leggera. È stato molto bello e interessante cercare di capire e sapere di più di quello che è l’essere umano, di quello che sono le persone. Quello che abbiamo dovuto fare per cercare di prepararci al meglio al film è stato cercare di capire come noi esseri umani operiamo o sogniamo. Poi fondamentalmente nessuno lo sa come funziona un essere umano. Questo è il motivo per cui ci sono tutte queste filosofie e teorie in merito e spesso conflittuali tra di loro. In fin dei conti poi, trattandosi di un film di animazione, abbiamo scelto quello che poteva essere più divertente piuttosto che puntare a ciò che poteva essere più scientificamente fondato. Ritornando al tema dell’inconscio, diciamo che abbiamo cercato di creare una sorta di versione forse un po’ più pop delle idee sul subconscio e l’inconscio di Jung. Per quanto riguarda il discorso onirico invece, ci piaceva l’idea che il motivo dei sogni fosse il frutto del lavoro di strani tizi con poco tempo e poco budget a disposizione.

Cosa ha ispirato la pubblicità che torna a più riprese nel film?

Noi americani siamo cresciuti con questi tipi di pubblicità, come quella della gomma da masticare, che hanno queste canzoncine che poi diventano dei veri e propri tormentoni. È stata dura da scrivere. Ci abbiamo provato e riprovato fino a quando non abbiamo trovato quel motivo pessimo ma che alla fine funziona.

Come siete arrivati alla scelta dei cinque sentimenti?

All’inizio avevamo preso in considerazione più emozioni come l’orgoglio e la speranza. Poi ci siamo resi conto che non aveva molto senso affollare la stanza con tutti questi personaggi che andavano e venivano e di cui non si riusciva a tenere traccia e quindi abbiamo ridotto, pensando che cinque fosse un numero più che sufficiente. Ad esempio con Speranza abbiamo deciso di prendere le caratteristiche di quel sentimento e di attribuirle a Gioia. Gioia infatti è la summa di quelli che possono essere i sentimenti positivi.

Ogni personaggio è monocromatico, tranne Gioia, come mai?

Gioia doveva avere più sostanza, più corpo all’interno del film. Doveva essere versatile, poliedrica, doveva essere, più degli altri, un personaggio a tutto tondo. E dal punto di vista visivo, il suo essere fatta di più colori, dà maggiore idea della complessità del personaggio stesso. Poi, considerando il percorso e il viaggio che Gioia fa, i suoi capelli blu rappresentano un po’ una premonizione di quello che poi sarà il finale del film.

Ho la sensazione che i suoi film siano uno studio sulla crescita dell’individuo. È una cosa pensata o è una coincidenza?

In quello che facciamo, per tutti noi che lavoriamo alla Pixar, c’è un riflesso di quella che è la nostra vita. Penso che non ci sia nulla nella mia vita che mi abbia influenzato in maniera più profonda del fatto di essere un genitore e guardare i miei figli crescere; è un’esperienza eccezionale che, peraltro, mi fa anche riflettere su alcuni elementi della mia crescita, del mio diventar grande scoprendo quel qualcosa con cui ancora non ho fatto i conti e che poi magari affronto e cerco di elaborare nei film che faccio.

Pensi che i più piccoli, vedendo il film, riusciranno a capire fino in fondo tutte le sfumature delle emozioni?

Ottima domanda. Lo temevamo. Così a metà lavorazione abbiamo fatto una proiezione di prova e, non solo i bambini lo hanno compreso, ma sono stati anche in grado di spiegarlo meglio di quanto non fossimo capaci di fare noi. Un dipendente della Pixar ha portato suo figlio a vedere il film. Lui ci ha raccontato che la settimana precedente il figlio a lezione di nuoto aveva paura di tuffarsi dal trampolino. Dopo aver visto il film invece si è tuffato senza problemi. Quando il padre gli ha chiesto come avesse fatto a vincere la paura, il figlio gli ha risposto di aver realizzato che in quel momento c’era Paura alla guida e gli è bastato metterla da parte. Questo fa capire che, nonostante la complessità, i bambini siano perfettamente in grado di comprendere il senso della storia e di creare una legame forte con il film. Credo che prima ancora di imparare la propria lingua i bambini siano in grado di capire la lingua delle emozioni.

Al contrario non pensi di aver fatto un film con una chiave di lettura più vicina al mondo degli adulti?

Questa è una domanda che ci viene posta molto spesso. In realtà io questi film li faccio per me, egoisticamente. Se devo trascorrere 4 o 5 anni della mia vita a lavorare su qualcosa, questo qualcosa deve coinvolgermi e deve avere una certa profondità. È ovvio che il film lo realizziamo per i bambini, infatti molte cose vengono espresse in maniera visiva e non verbale, ma è ovvio che ci sia qualcosa che agganci anche gli adulti perché questo rende il film più valido e lo fa funzionare.

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