Società,sei una razza folle.
Spero non ti sentirai sola senza di me.
Da Society di Eddie Vedder.
Chris, neolaureato figlio di una famiglia benestante facendo tesoro dei suoi autori preferiti-Tolstoj, London e il pensiero filosofico di Thoreau, abbandona il tutto e si dà alla macchia. Durante la cerimonia di consegna dei diplomi che apre il film, la sua estraneità al contesto viene dichiarata immediatamente, mostrandolo che compie un balzo per raggiungere il palco e la consegna, provocando il quasi infarto della madre, con macchina fotografica annessa pronta per lo scatto.
La rottura è totale, irreversibile: per raggiungere la libertà, ‘suggelare la rivoluzione spirituale, è necessario uccidere il proprio falso essere interiore’. Chris brucia il denaro, abbandona la sua macchina, dimentica il padre, la madre, la sorella, con i suoi libri-culto nello zaino e poco altro si incammina verso la meta ultima, l’Alaska, la comunione suprema con la natura, le regole ferree e precise per sopravvivervi dentro.
Penn, con la complicità totale dell’intramontabile Eddie Vedder , che compone la colonna sonora ed i testi sulle corde della sceneggiatura, costruisce il poema di questa avventura, riprendendo la suddivisione in capitoli cara ai resoconti di viaggio stile keruac-beat.
Il film ha una struttura incrociata: le tappe del viaggio si alternano ad immagini ed episodi del soggiorno in Alaska a bordo dell’ormai leggendario magic-bus (un autobus abbandonato che diventa per Chris casa e rifugio,salvezza dal freddo, studio per rileggere i suoi classici-guida), mentre le parole di Chris dette e scritte in sovrimpressione si accompagnano ai testi di Vedder e al racconto della sorella, che a sua volta si muove dal presente progressivo relativo alla scomparsa di Chris, ad episodi della loro travagliata vita familiare indicizzati da immagini video amatoriali, patrimonio privato.
Delude il fatto che un soggetto così affascinante-e non si nega, problematico- abbia perso l’occasione di diventare un film perlomeno onesto: anche le immagini che si vorrebbero consacrate alla celebrazione della Natura, dell’Uomo che tenta la comunione con il mondo che lo ha generato non riescono a raggiungere l’afflato di immenso che si propongono: la Natura non c’è in realtà , se non ritratta in alcune cartoline stile national geographic, o nei pochissimi piani totali dove Chris arranca nella neve.
Anche la tesi dominante del film-il didascalismo di cui è soffuso lo fa sembrare, a tratti, un film a tesi-, e cioè la ricerca di una libertà da tutto che muore nella solitudine, è declamata a piena voce, ne vengono sottolineati i passaggi, suggellata la morale da incontri e dialoghi, brani di libri sottolineati: il momento in cui Chris legge sulle memorie di Tolstoj che la sua vera felicità era dedicarsi al prossimo è enfatizzato come il momento di svolta, quasi subito Chris tenta l’attraversamento del fiume, il ritorno dai suoi cari che non gli è più possibile.
Non c’è niente di suggerito, una verità essenziale che lievita gradualmente dalle immagini, evitando i tratti calienti, caratteristica che si vorrebbe propria di un cinema con pretese di poesia, come quello a cui Penn sembra aspirare. Forse il suo più grande errore è stato quello di confondere i mezzi del film con quelli del romanzo, non riuscendo a creare una nuova forma per il nuovo mezzo.
Il massimo dell’enfasi è raggiunto nella scena della morte- dove gli ultimi istanti dello sconfitto Chris – ha mangiato bacche velenose, confondendosi su una descrizione in una delle tante guide di sopravvivenza nei boschi che aveva con sé – sono figurativizzati dal montaggio alternato- al ritmo del suo battito cardiaco- del suo viso agonizzante e del cielo, fino all’ultimo fiato, quello finale, che mette fine alla ‘tamburellata’ agonia, un soffio che risuona al microfono, forte e chiaro. Viene in mente quello che diceva Rivette, a proposito di Kapò di Pontecorvo, citato da Serge Daney ne Lo sguardo ostinato, Riflessioni di un cinefilo ( Il Castoro, Milano, 1995) “Ci sono delle cose che devono essere avvicinate con timore e tremore: la morte è certamente una di queste. Come si può, al momento di filmare una cosa tanto misteriosa, non sentirsi un impostore?”