– Amerò sempre la ragazza che sfuggiva
-E io il Principe irraggiungibile
(Into the woods)
Stephen Sondheim non è Angela Carter e Rob Marshall non ha la furia visionaria di Neil Jordan, per fortuna ne hanno entrambi una precisa consapevolezza e il riferimento ci serve per sgombrare da subito il campo dall’intelligenza critica alla ricerca di vecchi fantasmi post-strutturalisti. Browdway e il mondo Disney dialogano in questo caso attraverso un patrimonio comune, quello della tradizione, sottoposta a continue contaminazioni e feconde espansioni già all’interno del corpus più noto dei cosidetti classici Disney. In questo caso, Marshall cerca di mantenere intatto il progetto di Sondheim costruendo un set centripeto che punti al cuore della foresta nera come spazio drammaturgico funzionale e non troppo distante dalla frontalità scenica dell’originale, ma allo stesso tempo, in questa compostezza teatrale in grado di mantenere il ritmo musicale ad alti livelli spettacolari, inserisce alcuni elementi puramente ludici che sembrano provenire dalla tradizione slapstick, dalla screwball comedy e dal cinema d’animazione, basta pensare al gigante femmina di cui non vediamo i connotati, alle schermaglie e ai triangoli amorosi e sopratutto al cameo di Johnny Depp, quasi una citazione dal Red hot Riding Hood di Tex Avery, uno dei cartoon dedicati al personaggio di Howlin Wolf e che trasformava cappuccetto rosso in una pin up tutto fuoco con il consueto gusto mutante di cui era ricco l’universo dei vari Chuck Jones, Tex Avery e Robert Clampett.
In aggiunta, la fotografia di Dion Beebe, già con Marshall per Chicago, ma sopratutto con Michael Mann per Miami Vice e Collateral, insieme alla scenografia di Dennis Gassner (sodale dei Cohen da Miller’s Crossing) assume una consistenza quasi pittorica, molto vicina cromaticamente al risultato di alcune illustrazioni notturne di Elenore Abbott create per le fiabe dei Grimm.
Con questi presupposti, Marshall si gioca tutto sulla strategia ritmico-musicale, a partire dal segmento iniziale (“I wish”) attraverso il quale mette insieme tutti gli universi finzionali in gioco, sfruttando il propellente di un vorticoso montaggio parallelo per identificare desideri e aspirazioni dei personaggi e condurli tutti i quanti all’interno della foresta dove si verificheranno gli scambi simbolici; tra teatro e cinema, forse il punto di contatto a cui Marshall guarda è quello dei set di Vincente Minnelli, mondi completamente soggetti a infinite possibilità metamorfiche, dove a diventare puramente cinematografica era la penetrazione estrema dentro l’ingranaggio della stessa messa in scena, la cui trasformazione influenzava quella dei personaggi nella condizione liminale che li coglieva quasi sempre tra sonno e veglia.
In questo senso, il dialogo tra il Principe e Cenerentola che abbiamo citato all’inizio, più che un momento destrutturante o un sigaro acceso nell’occhio, punta a ripristinare la visione del desiderio a dispetto del suo compimento, dove al contrario di Bruno Bettelheim e del sottotesto psicoanalitico, sono i puntini di sospensione che interessano a Marshall, ovvero la riappropriazione del sogno o dell’incubo attraverso l’eterno ritorno di un movimento sospeso durante l’atto della ricerca, l’esaltazione dell’istante apicale di una quest senza che questa finisca, spiegandoci i motivi delle nostre ossessioni al di qua dello schermo, ma al contrario mantenendo vivo il mistero.