Quella “critica” incerta tra fashion blogging e stardom per le nuove generazioni sarà felice di ammirare i volti di Emilia Clarke e Sam Claflin (Il trono di spade, Hunger Games) in una favola melodrammatica, apparentemente priva di cinismo. Il romanzo scritto dalla relativamente giovane Jojo Moves (classe 1969) qui anche sceneggiatrice del film, favorisce il debutto nel lungometraggio della britannica Thea Sharrock, fino a questo momento specializzata in ritratti femminili destinati al pubblico televisivo.
E alla fine, la vita, se ci fosse, scaturirebbe solo dalle calze multicolore della giovane Lou Clark (Emilia Clarke), parte di una famiglia della middle class britannica, sulla cui origine la Sharrock rimane volutamente vaga, combinando diverse location in un luogo immaginifico unico, tra le umili abitazioni di Harrow, filmate nel nordeste londinese e lo sfarzo del castello di Pembroke, situato nel Galles occidentale.
Proprio li dentro vive il rampollo della potente famiglia Traynor, il giovane Will, inchiodato su una sedia a rotelle dopo un brutto incidente che ne ha fermato la promettente carriera finanziaria, oltre ad una gamma assortita di talenti fisici, atletici e “creativi”.
Mollato dalla fidanzata, adesso in procinto di sposarsi con il suo migliore amico, il povero Will rifiuta le giovani assistenti proposte dalla madre, ennesimo tentativo per scongiurare la volontà estrema del giovane, quella di rivolgersi ad una clinica svizzera che possa accompagnarlo in forma assistita nel cammino verso la morte volontaria.
C’è in effetti un contrasto evidente nelle intenzioni della coppia Sharrock/Moves, quello di evidenziare una prassi indicibile dall’inizio alla fine nel contesto ovattato di una favola moderna, esacerbato come si diceva dalla scelta di location storiche in grado di restituire una sempiterna Britishness.
Ma il contrasto, probabilmente impossibile in una produzione all’ombra del vaticano, ad eccezione del durissimo e interessante Miele di Valeria Golino, film che vola ovviamente ad altri livelli ed intenzioni, risulta inerte ed inefficace dal momento in cui le due autrici non provano a giocare, anche semioticamente, con il linguaggio che hanno scelto di utilizzare.
Io prima di te allora, è davvero un film stucchevole per le modalità in cui gli stereotipi della commedia romantica non consentono ai suoi personaggi di respirare aria fresca, inchiodati come Will in una dimensione fredda. Ai tagli evidenti sul polso di Will, corrisponde un racconto didascalico che non lascia dubbi e ombre, ogni cosa è illuminata da questa luce accecante, nel tentativo di chiarire tutte le scelte, tutti i percorsi e tutti i concetti in gioco, con i mezzi di un film che utilizza l’assenza di immagine come un contenitore da colmare con la parola.
Manca ovviamente il dolore e la sofferenza, asetticamente tenuta a distanza e negata dal biancore della clinica svizzera dove Will sarà accolto.
Persino la retorica post-mortem sembra tale, perché rispetto a quella, la scelta di Will non ci arriva come uno “scandalo necessario” (almeno per chi scrive e pubblica da queste parti) ma al contrario come l’applicazione di un metodo fintamente “laico”, che di quell’esperienza umana ammorbidisce le contraddizioni della legge, vere e proprie ferite da esaminare sul proprio corpo.
Qual è allora il cambiamento se non lo si intravede nella mutazione della propria esistenza?
Per Sharrock/Moves è certamente nella figura di Lou e nella ritrovata spinta a cambiare i parametri della propria vita, ma è tutto così chiaro, esplicito, scolpito nelle convenzioni da congelare qualsiasi emozione.