lunedì, Dicembre 23, 2024

Io sono Ingrid di Stig Björkman: la recensione

Ragazza svedese che vivi a Hollywood, promettimi che sarai gentile e bella in modo straziante”.
Uno degli uomini della sua vita, Robert Capa, grande fotoreporter ungherese, come lei inafferrabile cittadino del mondo, raccolse in queste parole tutto quello che Ingrid è stata nella vita.
Le avevano detto: “Sei troppo alta per fare l’attrice”, e lei “… impose a tutti la sua bellezza statuaria, non tentava mai di sembrare più bassa”, racconta Sigourney Weaver, altra colonna dorica di Hollywood.
Come dimenticare, infatti, quell’ingresso al Rick’s Café Americain di Casablanca, con lei vestita di bianco al braccio di Victor Laszlo, nobile figura della resistenza cecoslovacca?
Alta, bella in modo a dir poco leggendario, Ingrid aveva 27 anni e Humphrey Bogart, Cary Grant e decine di altri nomi che affollano l’immaginario di chiunque ami o non ami il cinema, le passarono accanto, chi amandola, chi giocando con la sua grazia e la sua allegria, chi ferendola fino in fondo quasi a morire.
Ma Ingrid era leggenda, e dunque immortale.
E’ quello che ci racconta un film che nulla ha di agiografico o stucchevole, rischio sempre incombente sulle biografie post mortem.
In realtà è come se l’avesse girato lei, con il suo gusto quasi maniacale per le riprese, le foto, le memorie, i diari, le lettere alle amiche del cuore, per qualunque cosa, insomma, servisse a fissare l’attimo, a non farlo fuggire come quelle vite che aveva visto sparire intorno a sé fin da piccola.
La madre, prima di tutti gli altri, morta che Ingrid aveva tre anni, bella come lei nelle foto d’epoca (erano gli anni della Grande Guerra), e soprattutto il padre, amatissimo, la figura più influente sulla sua vita futura, perduto a dodici anni.
Ingrid Bergman è la somma di decine di vite, le sue e quelle del mondo che, roteando intorno a lei, ha dato forma ad una storia in cui i confini fra arte e vita si sono completamente smarriti.

Nel 2011 il regista Stig Björkman e Isabella Rossellini hanno posto le basi per un documentario sull’attrice fatto di tutto quello che lei stessa ha detto di sé, con i suoi sguardi sulla vita affidati alle foto e ai video cuciti con le parole di chi l’ha conosciuta e ancora vive, i quattro figli, pochi altri, e immagini di repertorio da film o cinegiornali.
Il collage messo insieme da un montaggio perfetto ha incorporato il materiale drammaturgico, testo, voce e video, attorno ad una linea musicale che del film costituisce l’elemento portante.
Michael Nyman, firmando una delle sue inconfondibili colonne sonore, ha affidato alla musica l’impegno di localizzazione della vicenda, confermando la sua vocazione documentaria: “La musica non deve essere utilizzata per il suo carattere emozionale ma come un mezzo di identificazione, deve cioè identificare il tempo e il luogo”.
Inedito nel suo genere, Io sono Ingrid è molto vicino a quello che fu sempre il sogno di Stanley Kubrick quando affermava: “Si potrebbe immaginare un film in cui immagine e musica fossero utilizzati in modo poetico, dove una serie di enunciati visuali impliciti sostituissero gli enunciati visuali espliciti”.
Quello che resta nella post-visione sono infatti la musica e le immagini, più delle parole, non molte, affidate ai testimonials.
Della voce di Ingrid quasi nulla, pochissime registrazioni dal vivo di lontani anni in bianco e nero si dimenticano presto, mentre ascoltiamo i figli parlare oggi con tenerezza di questa madre spesso lontana, eppure sentita sempre molto vicina, una donna capace di rompere tutti gli schemi ed essere per questo ancora più vera.
Per loro Ingrid è una presenza costante, come allora, nelle immagini della bella nidiata implume che svolazzava intorno alla Grande Madre in movimento continuo fra ville sul litorale romano e isole sui fiordi, auto circondate da paparazzi e aerei in volo da e per l’America.
Quello che c’è nei filmini familiari in super8, poi riversati in digitale, girati o fatti girare da Ingrid, occhio puntato su questa vita di cui ebbe assoluto controllo, è un caleidoscopio di volti, eventi, incontri e scontri che compongono il ritratto di una donna libera, profondamente consapevole del suo essere al mondo.
Ricca di contrasti, si offriva com’era ad un mondo pronto ad osannarla e a denigrarla.
Immaginiamo che abbia sofferto molto, come ogni vera donna avrà avuto le sue grandi fragilità, la sua timidezza era memorabile e certo per questo amava tanto recitare, nascondersi dentro i personaggi, ma sappiamo di certo che il suo sorriso incantevole era, ogni volta, una sua conquista perenne, ed è quello di lei che più resta nella memoria di chi la ricorda oggi.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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