venerdì, Novembre 22, 2024

Irrational Man di Woody Allen: la recensione

C’è un contrasto evidente in questo brutto film di Woody Allen ed è quello tra l’approssimazione delle immagini, immerse in un’aura che ricorda i vecchi home movies, come se fosse la raccolta visiva di alcune impressioni famigliari e la presenza ingombrante della doppia voce narrante, quella del professor Abe (Joaquin Phoenix) e della sua studentessa Jill (Emma Stone), livello narrativo completamente staccato da questi frammenti con il montaggio ridotto all’osso e la luce di Darius Khondji a fare ancora una volta da padrona, dopo la sperimentazione sulle autocromie svolta per Magic in the moonlight, film più vicino al percorso artistico del direttore della fotografia iraniano che non al “talento” di Allen.

La voce appunto, sembra giustapposta al mistero quotidiano della luce che si riflette sul volto della Stone oppure mentre tramonta davanti a Phoenix in silhouette, per uccidere l’invisibile, per suturare un film che avrebbe potuto essere un enorme buco nero e che per certi versi sembra provenire dalla desertificazione del cinema di Allen che da Match Point portava a Cassandra’s Dream, il suo film più riuscito in questo senso e più attento al rapporto tra centralità dell’immagine e fuori campo.

Di quel tentativo rimangono solo le ruminazioni Dostoevskijane, l’esistenzialismo for dummies e un cinismo senile che sembra non farsi mai immagine dell’ambiguità, proprio per l’ansia di confinare i continui rovesciamenti di senso nella dimensione declamatoria e nell’esplicitazione verbale dei sentimenti. L’assenza del motto di spirito, punto di forza della debolezza alleniana che da sempre si affida alla parola, diventa flagrante se si pensa alla piattezza con cui viene messo in scena il delitto perfetto ai danni del corrotto giudice Spangler, sequenza che per tempi e frontalità potrebbe far pensare ad una gag di Laurel & Hardy completamente depotenziata o al modo in cui il cinema “confidenziale” di Allen si è codificato nei decenni attraverso l’impostazione bozzettistica dell’inquadratura, qui senza più convinzione e senza la vicinanza elementare ai sentimenti che ha rappresentato quel barlume di cinema che arrivava dai suoi film.

Nella totale inerzia di “Irrational Man” ci sono comunque due aspetti che sfuggono alla razionalità esibita della parola. Il primo è Joaquin Phoenix, così vicino al sonnambulismo di Leonard Kraditor, personaggio interpretato dall’attore americano per Two Lovers, il capolavoro di James Gray. Costantemente fuori tempo e fuori posto, Phoenix interpreta le seduzioni della realtà con lo stesso autismo, cercando da “non morto” di ravvisare l’improvvisa epifania della vita in un mondo popolato da spettri, ma mentre nel film di Gray quest’aura invade gli ambienti, i corpi e persino la carta da parati degli interni, Allen riduce il tutto ad una galleria di mostri che provengono dai suoi film precedenti, tra cui emerge una splendida e dolente Parker Posey, cercando di concentrare tutta la luce disponibile sul volto e sul corpo di Emma Stone, seconda figura fuori controllo, non tanto per la connessione con le muse del passato alleniano, ma per una deriva che a un certo punto attraversa il film e che potrebbe farsi carico di un improvviso rovesciamento.

Si desidera davvero la soppressione della Stone e di quella memoria nostalgica che connette il personaggio di Jill alla deambulazione di altre figure femminili nella mitologia del cineasta americano. Figura irritante proprio per il residuo di quell’educazione sentimentale così univoca nel cinema alleniano, assume il controllo narrativo principale, orientando quello sguardo convenzionalmente maledetto con cui viene investita la mediocrità evidente del professor Abe e per eccesso assumendosi la responsabilità di una peculiare esibizione del falso, assolutamente pertinente nella descrizione della sua generazione. Ma non è certo la  funzione Brechtiana a fare la differenza, così come l’esplicita capacità di rilevare un cortocircuito, vedendosi improvvisamente al centro di una vacuità cognitiva, la stessa che sembra attraversare tutto il campus universitario, microcosmo di un’upper class orrenda e chiusa in uno spazio iperbarico tra pezzi d’arte costosissimi e cultura a buon mercato.

Non è certamente questa esplicita rappresentazione in abisso, perché Jill sembra a un certo punto rappresentare il cinema “classico” di Allen che cerca di sopravvivere e rispetto al quale non ce ne frega più un cazzo, tanto è verboso, ruminante, pesantemente ipostatizzato nel rapporto binario uomo-donna, con la seconda a rappresentare la musa e l’apertura verso la meraviglia.

Per un attimo, quel rapporto di illusione e falsificazione reciproca che in Magic in the moonlight cercava nuovamente di rintracciare la meraviglia anche attraverso il falso, sembra fortunatamente incepparsi, e si desidera davvero che sia Jill a precipitare nel vuoto dell’ascensore, che Abe finalmente le tappi la bocca, metta fine all’ingombrante presenza di una voce fuori campo che non si arresta neanche dopo il film, mentre cerca di spiegarci persino la qualità immateriale della luce di  Khondji, piccolo miracolo sullo sfondo.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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