domenica, Dicembre 22, 2024

Isle of Dogs di Wes Anderson – Berlinale 68 – Concorso: la recensione

La mattanza dei cani è finita — almeno nei film di Wes Anderson. Difficile dimenticare quelle due scene dei “Tenenbaum” (2001), Gene Hackman che porta i nipoti a vedere una battaglia clandestina tra pitbull e Owen Wilson che si schianta con la macchina senza ammazzar cristiani ma falcidiando il povero beagle di famiglia, subito sostituito con un altro bestiolo manco fosse un giocattolo rotto. E come la mettiamo col simpatico bastardino a tre zampe di Steve Zissou (2004) che non arriva alla fine del film così come Snoopy, la mascotte scout freddata da una freccia in “Moonrise Kingdom” (2012)? Tutte morti fuori campo, sia ben chiaro, con l’eccezione di quella a passo uno del ringhiante cane da guardia di “Fantastic Mr Fox” (2009), i cui occhi diventano croci dopo aver ingoiato una bacca velenosa. Un numero sufficiente di cadaveri per far nascere teorie internettiane sul rapporto tra Wes e gli animali da compagnia.

Isle of Dogs ha tutta l’aria di una risposta definitiva a queste illazioni. Stavolta i cani sono protagonisti assoluti, affollano lo schermo e soprattutto la spuntano. Una missione non facile, visto che ci troviamo nel Giappone del 2038, orizzonte distopico che vede il sindaco della città di Megasaki, discendente da una famiglia di guerrieri col dente avvelenato per i canidi, esiliare tutti i quattro zampe della prefettura su un’isola-discarica. Sarà un orfanello adottato dal dittatore, Atari, a guidare la rivolta dopo aver raggiunto Trash Island su un aeroplano scassato alla ricerca del suo fedele Spots. Il resto della trama va goduto al cinema, ma una cosa va detta: lo stesso Atari, cioè l’eroe della vicenda, ha tratti che ricordano un cyborg per via dell’incidente in cui morirono i suoi genitori. Parla solo in giapponese, segnando una distanza tra sé e buona parte del pubblico, cammina reggendosi a una stampella, non abbandona mai la divisa da pilota e in più di un’occasione gli si conficca un frammento metallico in testa. Sembra un giovane mostro buono di Frankenstein, e questo armamentario straniante è fondamentale per elevare gli animali a veri, unici protagonisti umani del film.

Anderson cita Kurosawa come principale ispirazione di Isle of Dogs, lui e l’immaginario ottocentesco del “mondo fluttuante”. Questi richiami sono tuttavia omaggi lontanissimi, così come Stefan Zweig informa, ma non detta in alcun modo, le atmosfere di “Grand Budapest Hotel” (2014). Il progetto di Isle of Dogs è in questo senso ancora più radicale e ambizioso di “Fantastic Mr Fox”, poiché la sceneggiatura è interamente originale. L’universo di Anderson come lo conosciamo dai tempi di “Rushmore”, un universo di tic, baloccamenti, geometrie e personaggi strampalati, si sposta di peso in un Giappone immaginifico e resta intatto, anzi, consolida la propria tangibile potenza. La scelta di un’ambientazione esotica, così com’è accaduto per l’esplorazione degli oceani ereditata da Cousteau, per l’India di “Darjeeling Limited” o per la vecchia Europa zweighiana, è solo un teatrino di cartone.

Sono pochissimi gli “autori” come li intendeva Bazin ancora vivi e attivi nel 2018, e Wes Anderson con questo suo secondo film di animazione in stop motion si conferma come uno dei più chiassosi, assalendoci con una precisione formale e narrativa che può persino infastidire. Troppe star dietro i microfoni, troppi fondali bellissimi, Desplat impeccabile alle musiche, tutto perfetto e senza sbavature? Ma è questo eccesso, da sempre, la cifra stilistica di Anderson, che ha come contrappeso una certa leggerezza delle trame.

Se Mr Fox aveva un messaggio anticapitalistico all’acqua di rose, Isle of Dogs fa un discorso antispecista chiaro e convincente, che arriva persino a toccare il tema del pesce (una scena sulla preparazione del sushi ha il medesimo impatto di certi filmati del Peta). Il tutto in un mondo futuribile sgangherato e meccanico, arrugginito e polveroso, quasi steampunk. È questa attenzione all’organico, questo sguardo al passato, a rendere simpatiche le geometrie ossessivo-compulsive di Wes Anderson.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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