Il tritacarne semantico di Marcello Macchia non ha solamente un’origine televisiva, perché al di là degli esordi artistici del comico di Vasto, ciò che ha delineato lo stile e la forma delle sue schegge video, è anche la disseminazione virale, veicolo ma anche luogo elettivo per modellare un’estetica a metà tra parodia, risemantizzazione dell’universo cine-televisivo e mash-up, così da confezionare un audiovisivo completamente compromesso con i modi e gli spazi della rete Internet. Non è un caso che Macchia abbia realizzato per lo più trailer, o fake-trailer, mimando una prassi diffusissima in rete e reinterpretandola da un punto di vista creativo che ha certamente un’origine catodica, basta pensare alle prime edizioni di Avanzi e alle intermissions pubblicitarie dei Broncoviz, ma che allo stesso tempo ha sfruttato una delle forme più condivise in rete, adattando formato, ritmo, stile.
Nei brevi trailer di Macchia, il mondo televisivo viene osservato attraverso la lente deformante della parodia surreale e delirante, ma sopratutto concentrato in “pillole” in una sintesi accelerata che di questo stesso delirio, elabora la versione ipertrofica e digitale, in uno scambio continuo tra reality brutta televisione, cinema italiano con presunzione autoriale, e sopratutto, l’autismo come antidoto a qualsiasi espressione creativa di talento, uno sberleffo radicale contro il contesto cinematografico nostrano, che poteva muoversi solamente sulla realtà parallela della rete.
Immaginarci se il futuro di Marcello Macchia avrebbe potuto abitare la rete, contaminandosi e contaminando i nuovi formati seriali che vengono diffusi attraverso Internet, potrebbe essere un esercizio sterile, tant’è il formato cinematografico ci è sembrato uno scacco matto, proprio in virtù delle dinamiche strutturali in cui i trailer di Maccio Capatonda si sono sviluppati. Come a dire che la forma non cambia e viene applicata ad un formato espanso, che funziona nella prima mezz’ora, grazie ad una serie di trovate folgoranti, come il passaggio dalla televisione in bianconero a quella a colori, il piccolo Giulio Verme che si caca “sopra”, il videoclip delirante con Macchia in versione digitale e virtuale che striscia ad altezza zerbino. Ma al netto di questa serie frequentativa di trovate, il film si arena proprio nel tentativo di imboccare una via narrativa, con il rischio e sopratutto la necessità di individuare una “morale” di fondo per rimanere in piedi; si perde quindi per strada l’amoralità della deformazione mostruosa, finendo per scivolare rovinosamente su quel grottesco simbolico, con tanto di critica esplicita alla società dello spettacolo mediatico, che è il tallone d’achille del nostro cinema (con presunzione) d’autore.
Se si pensa, con una collocazione lontana nel tempo e nella storia, a quel continuo sabotaggio della televisione nel cinema (e viceversa) nel “Ridere per Ridere” di John Landis, il “terrorismo” di Macchia risulta molto più addomesticato e innocuo di quello del regista americano, proprio perché a un certo punto, si scorge il tentativo di trovare un senso attraverso l’accumulo di nonsense, facendosi strada nel solco della parodia sociale sul degrado (ecologico, morale, valoriale).
Alla fine, tutta l’idea originaria del primo “Italiano Medio” viene espansa con una forte diminuzione d’intensità, con l’illusione di offrire una casa accogliente ad una serie di rutti e scorregge che nella loro forma breve, avevano il senso di un ribaldo gesto punk.