martedì, Novembre 5, 2024

Jackie di Pablo Larrain – Venezia 73 – Concorso: la recensione

Una parte importante della “mistica” che gravita intorno alla figura di Jackie Kennedy si fonda sulla rilettura immaginale del mito di Camelot. Non è semplicemente il racconto di Theodore White pubblicato sulle pagine di Life Magazine, dopo la conversazione con la vedova Kennedy del 22 novembre 1963, dove per la prima volta ci si riferisce all’amministrazione del trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti legandola ad un’interpretazione moderna del ciclo arturiano, ma la costruzione di un complesso immaginario politico-culturale che in qualche modo concorre a stabilire un vero e proprio sentimento dell’assenza assorbito dal corpo mistico di Jackie, la cui regalità sacrale passa attraverso l’austerità di un immagine riflessa, costantemente distante e allo stesso tempo vicina al dolore di un’intera comunità.

Più che esprimere i fondamenti di un’etica della prossimità, il corpo della Kennedy diventa immagine opaca, inclusa entro confini precisi e intangibile come alcuni personaggi della tragedia classica o le sante dell’iconografia cristiana.

I silenzi, la compostezza, lo sguardo celato dagli occhiali scuri, il corpo come feticcio degenderizzato, sono solo alcuni degli elementi che si allineano all’epistemologia di transito degli anni sessanta, incluso il ruolo complesso delle immagini filmate da Zapruder, dove “niente poteva essere considerato vero e niente poteva essere considerato falso” per sfruttare una lettura di J.G. Ballard su quelle stesse immagini, in una incessante ridefinizione della realtà tra documento e simulazione, frammenti incongrui di uno spazio di confine ormai indistinguibile.

Al centro di questo processo che ridefinirà l’immagine mediale, le scelte di Jackie allora non sono meno importanti e rivelatrici rispetto ai pochi minuti filmati dalla cinepresa amatoriale di Abraham Zapruder durante la tragica morte di J.F. Kennedy.

Il film di Pablo Larrain si fa carico proprio di questa riflessione a partire dall’idea di Camelot come “nostalgia per il futuro”, immagine di un sogno che elabora il mito Kennedyano dalla sua assenza e impossibilità, rivelandone per eccesso le caratteristiche tombali.

In questo senso Jackie è un film funereo che, come accade spesso nel cinema del regista cileno, fa scivolare la morte nel quotidiano, mostrando ciò che l’occhio non vede, attraversando l’anima di una comunità che osserva se stessa unificata nella morte.

Larrain limita al corteo funebre le immagini d’archivio, ricostruendo quelle televisive che entrano negli ambienti presidenziali con una sovrapposizione delle fonti sonore dell’epoca per creare uno straniante lip sync tra mitologia e documento. Anche la  fotografia di Stéphane Fontaine con cui collabora per la prima volta, viene in un certo senso indirizzata verso la grana pulsante e livida di Sergio Armstrong per rendere ancora più complessa la distinzione tra i due livelli di realtà.

La realtà ideologica della Camelot Kennedyana, eretta sull’immagine di un’utopia declinata al futuro-anteriore diventa allora per la  Jackie di Larrain motivo di consapevolezza a partire dal suo riflesso, con un’iconografia che è certamente legata al processo di formazione di una diva, ma facendone coincidere ascesa e tramonto in una sola immagine,  inquadrando Natalie Portman di spalle mentre siede davanti ad uno specchio, riflessa nel vetro della macchina che confonde la sua immagine con quella della folla, nascosta da un velo nero, testimone e veicolo dell’immagine del potere e allo stesso tempo agente di un’immagine dell’assenza.

Questa vertigine viene accentuata dalla musica per archi composta da Mica Levi; spiraliforme e senza uscita e con una collocazione spesso ingombrante rispetto alle immagini, ci cattura e ci tiene a distanza.

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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