Rivedere Ossessione e più in generale alcune delle ossessioni più banalmente reiterate dal cinema industriale attraverso un meccanismo nudo che insista su oggetti, materia e la presenza de l’argent come sguardo sul mondo, coazione a ripetere che colga i corpi e la merce sullo stesso piano è la via che Christian Petzold non riesce a scegliere nel suo Jerichow. Non è la natura sfacciata del calco che disturba ma l’appiattimento dell’immagine entro uno spazio dove la predeterminazione è l’escatologia peggiore dell’occhio, quella che vede per noi e ci impedisce di smantellare un teatrino che imprigiona le immagini in uno scenario inesorabile. Nonostante l’apparente rigore, Jerichow ha più di un punto di contatto con il cinema per niente nuovo di alcuni giovani cineasti tedeschi, uno per tutti il sopravvalutato Florian Henckel von Donnersmarck; Le vite degli Altri e l’ultimo lavoro di Petzold sono film dove il gesto come segno è assolutamente bandito a favore di un segno che si impone allo sguardo senza possibilità di scampo. I rari momenti in cui il film si libera da questo macigno sono quelli che seguono la deriva etilica di questo Bragana turco che si perde nel niente quando il mondo che crede di governare sfugge al suo controllo. Se per Petzold il denaro regola rapporti e movimenti automatici dei suoi personaggi, questo finisce per organizzare il suo stesso cinema in una forma televisiva funzionale e in-visibile; un immaginario che si vota al suicidio e che come la coppia di amanti di Jerichow osserva a distanza in una postura annichilita un simulacro di catarsi, senza il coraggio di attraversarla.