È un vero peccato che l’articolo dedicato a Steve Jobs e diffuso online il 27 giugno del 2012 da “Pubblico” , il quotidiano allora diretto da Luca Telese, non sia più reperibile online; senza nessuna ombra evidente e con un’imbarazzante eliminazione di tutte le contraddizioni, il pezzo si intitolava “Perché Steve Jobs è di sinistra” ed era probabilmente un “inconsapevole” manifesto di rifondazione “democratica” molto vicino alla visione della prossima classe dirigente Italiana che ci asfalterà tutti, nessuno escluso.
Passando in rassegna le principali tappe della vita di questo “eroe moderno nel quale chi è progressista oggi, non possa che riconoscersi”, nell’articolo si parlava degli esordi pauperistici e “senza scarpe” del fondatore di Apple, del suo amore per Dylan e la Beat Generation, del viaggio in India e dell’esperienza con l’LSD, della battaglia intrapresa contro il colosso IBM e della sua visione neo-umanistica di una tecnologia a portata di utente. Nessuna traccia della politica adottata per i brevetti, della scarsissima interoperabilità del mondo Apple con altri ambienti informatici, di un sistema chiuso che ha sempre fatto il paio con le attitudini cognitive dei suoi consumatori più fedeli, del flagrante contrasto tra la “bellezza” superficiale dei dispositivi e le politiche criminali adottate in Cina.
È un vero peccato, dicevamo, che quell’articolo non sia più consultabile perché avrebbe preso il posto della sinossi perfetta per il lavoro di scrittura sviluppato dall’esordiente Matt Whiteley, sceneggiatore del Jobs diretto da Joshua Michael Stern, autore al momento in bilico tra fiaba e agiografia immaginaria. Sinossi perfetta perché la linearità di Jobs risiede proprio nel costruire un’immagine desunta da un’operazione marketing tra le più banali e semplificate, quella che non potendosi preoccupare delle interferenze e delle derive, si affida alla didascalia, alla scenetta vernacolare, al bozzetto aneddotico. L’ossessione di Jobs nel voler progettare il dispositivo perfetto, che riducesse sempre di più la membrana tra utilizzatore e interfaccia, immaginandosi quindi una tecnologia intesa come prolungamento naturale delle funzioni quotidiane, viene ripetuta durante il film fino allo sfinimento senza che a un certo punto si entri nelle case degli utenti, si mostri questo rapporto che nel bene e nel male ha ridefinito la relazione tra reale e virtuale, organico e inoganico, magari smontando e rimontando la figura dello stesso “eroe” di Cupertino a partire dalle sue contraddizioni più dolorose.
Al contrario Jobs è una vera e propria fiera del modernariato, allestita appositamente per il livello più triviale del culto Apple, quello che in fondo ha permesso la disseminazione virale di uno dei discorsi più noti del fondatore all’indomani della sua morte, come una forma di preghiera ascensionale adattabile alla nuvola del social networking.
Esattamente come l’insopportabile supponenza che ha caratterizzato negli anni lo zoccolo duro del fanatismo Mac, il film di Stern è un oggetto stolido, non ha niente da nascondere oltre il suo funzionamento più basico, ti chiede di adottare una sequenza di scene madri costruite per corroborare dogmi e certezze.
Niente da condividere con lo Zuckerberg di Fincher, a metà tra un gangster e un matematico visionario, capace di ridefinire il diritto violandolo continuamente, utente solo tra utenti soli, la cui invenzione eccede e si mangia l’inventore.