Si dice che John Barry abbia cominciato a nutrirsi di cinema in età molto tenera, al punto da stordirsi personalmente con delle intere sessioni pomeridiane come proiezionista in una delle sale cinematografiche di proprietà del padre.
Eppure non decide di lasciare la scuola per le vertigini provocate da uno dei tanti noir che si trova a vedere e rivedere. E’ l’assimilazione con la musica e gli arrangiamenti che accompagnano le immagini, che lo spingono ad affidarsi ad una serie di tutori di lusso, tra cui Bill Russo, già collaboratore e arrangiatore per la band di Stan Kenton. La via del Jazz più popolare e alcune esperienze addirittura bandistiche orientano le sue scelte verso le prime propaggini del POP inglese, che in qualche modo influenzerà tutta la sua produzione a venire, per lo meno fino alla prima metà degli anni 70. Nel 1957 aveva 24 anni e un ego sufficiente per permettersi di lanciare i suoi JOHN BARRY SEVEN verso un fruttuoso contratto con la EMI.
Da qui partono una serie di vettori incidentali, così ben assestati da portare Barry verso il mestiere di autore di musica per il cinema. Incontra un giovane attore (velleitario, in verità) chiamato Adam Faith, con il quale raggiunge la cima delle charts inglesi nel 1959. Ci riprova un paio di volte, assesta qualche hit ; e mentre con i suoi SEVEN sprofonda completamente nei giochi della nascente musica lunge (il boom della musica strumentale pop dei primi anni ’60) , arriva al cinema sfruttando un tentativo di Faith di partecipare come protagonista ad un film inglese a basso budget (Beat girl). Il soundtrack è il primo di Barry, e ottiene un successo relativo, insieme ad altri due episodi successivi.
La storia popolare di John Barry comincia da qui, con l’incontro con la United Artists e con i problemi nell’escogitare un tocco contemporaneo per il tema di una nuova serie, quella di James Bond guarda caso. Ed è forse questo “theme” che diventa il vampiro ontologico di Barry, tale e quale alla retorica morriconiana di alcuni suoni. Il saccheggio spesso creativo, spesso nauseante che i gruppi pop, o trip-hop inglesi hanno fatto della musica del compositore di York è una dimostrazione della retorica di “genere” che può colpire la memoria o la divulgazione di un autore complesso, attraverso un suono semplificato. Una band come i Goldfrapp è l’archivio tipico di una serie di trucchi semantici ad effetto che duellano con la memoria di Bert Kaempfert, il solito Morricone, e sicuramente John Barry. Molto più creativa l’esasperazione di archi al limite di uno stucchevole “taste of honey” (assolutamente “free”) orchestrata da una band come i Tindersticks; il loro secondo album, il migliore e il più sottovalutato, è un’omaggio commovente all’arte immediata e complessa di John Barry orchestratore. Le tracce profanate, piuttosto che il solito Bond, sono quelle di Zulu (1963), oppure di Deadfall (1968). Altre derive quelle messe in atto dai Portishead, di cui approfondiremo l’ultimo, splendido lavoro, in altra sede.
L’ambiguità di cui si parlava è quella innescata dal recupero di tendenza che accompagna spesso la rievocazione pubblicitaria o l’esaltazione vintage più deleteria. Poco importa se gli estremi si trovano in una collocazione apparentemente difforme, anche da un punto di vista ideologico. Il rischio è la stessa mancanza di ricerca e quindi di vera passione che ha infestato una certa parte della critica italiana (per esempio) nel recupero del cinema di genere Italico o nella costruzione dei mausolei del trash. Il mausoleo Barry è un vero e proprio necrologio della sua musica.
Il suono come gadget, la ricerca del bizzarre a tutti costi, il kitch di un dulcimer o di un theremin sbattuti in mezzo a un groove modaiolo ad effetto. Che è poi la differenza tra Michael Bublè (!) e Nancy Sinatra. Il primo ha bisogno realmente della postura per sopravvivere ai simulacri che utilizza, Nancy e quindi tutto quello che lavorava intorno alla sua voce (Billy Strange, Lee hazelwood, John Barry appunto) sperimentavano sui feticci, sia si trattasse di stivali, come della collisione profana e sperimentale tra un insieme di archi e la frizione di elementi “volgari”.
Il Kitch fa capolino nel momento in cui si deve ripristinare la gerarchia delle categorie, il Pop e la serie B non hanno probabilmente bisogno di una “elevazione” a merda da salotto. Altra forma di mausoleo quella del collezionismo introdotto dalle raccolte che rievocano suoni esotici e Bachelor party music, estetica del campionamento replicante dei suoni: piccole e grandi band di pop strumentale riscoperte, accostate con gusto archivistico, o semplicemente seriale. Eppure una vecchia serie degli anni sessanta, licenziata dall’RCA per divulgare una nuova diavoleria di post produzione stereofonica, veniva accompagnata da una frase sconcertante e assolutamente teorica, rispetto al POP strumentale che veicolava. The sound your eyes can follow. Non credo o non voglio credere sia un caso , che uno dei gruppi più sfortunati dei primi ’90, gli inglesi “Moonshake” abbiano clonato del tutto il vessillo della serie, rubandone il nome per uno dei loro lavori più riusciti. Sorvolando sulle suggestioni cinetiche (piu su follow che su eyes), l’idea è quella di una consapevolezza fortissima, nel contaminare la struttura di un suono che comunque doveva rimanere fruibile, immediato.
L’etichetta inglese Silva Screen aiuta in questa considerazione per niente azzardata, nella confezione di un memoriale di 40 anni di musica per il cinema, dedicato interamente a John Barry, pubblicato nel lontano 2001 e finalmente esaustivo nel considerare una manciata di titoli che seppelliscono i quattro o cinque ricordi di Bond che sono presenti nella raccolta. I quattro CD del cofanetto (per 250 minuti di musica) lavorano sulla cronologia del compositore inglese proprio per approfondimento, e malgrado l’operazione possa essere apparentemente considerata una tipica re-interpretazione di restauro attraverso l’esecuzione recente dell’orchestra filarmonica di Praga (potrebbe essere un’ossessione illusoria e archivistica per gli originali, la mia), l’anello è sorprendentemente ricongiunto con la conduzione di Nic Raine che è l’uomo fedele di Barry per gli arrangiamenti e gli esperimenti orchestrali.
Questo garantisce un’infedele fedeltà ad alcuni episodi, sorprendentemente maltrattati per dilatazione. La tensione beat degli episodi Bond viene sommersa da un tipo di impasto orchestrale che rende omogeneo il risultato. Non emergono i temi Barryani in senso popolare, o meglio i cloni di Barry, o Barry che fa il verso a se stesso. Anche The Persuaders (i due da cui guardarsi, attenti a Tony curtis e Roger moore tanto per fare un refresh della memoria) perde la grinta e il mordente elettrico, l’intrusione dell’elettronica è esilarante e commovente allo stesso tempo, tradisce e traduce per l’ascoltatore la sovrapposizione dei due elementi e il tentativo di Barry di creare una fusione di linguaggi spesso inconcepibili tra di loro e probabilmente astratti nel risultato.
Un esempio di questa deriva orchestrale è l’episodio più bello dell’intero cd, WALKABOUT, tema dell’omonimo capolavoro di Nicolas Roeg, vero e proprio rito di passaggio, come il suo doppio filmico. Per anni è stato un problema rintracciare la colonna sonora, anche nelle convention sostenute dai custodi/sciacalli del mausoleo vinile. La Silva Screen ha ripubblicato un recupero (sempre il solito Nic Raine) dell’intero score. L’episodio nel cofanetto memoriale è un piccolo estratto, sufficiente a generare lo stupore per la capacità sperimentale di John Barry (anno 1970). Qui il lounge di “The Persuaders” o il Pop meraviglioso e demente di “Midnight Cowboy” non ha spazio. Un tema straziante e registrato quasi fosse eseguito a distanza, nel deserto, è il fantasma della strutturazione di un tema: ai limiti con il cantabile e l’impossibilità di memorizzarlo, quanto è rarefatto e cangiante nella direzione e nello sviluppo. Eppure gli elementi sono i soliti, la commozione e gli affetti sono quelli preferiti da Barry, ma il loro utilizzo è defunzionalizzato rispetto alla norma con un procedimento che un altro alfiere della musica d’intrattenimento aveva sperimentato nella sfortunata e bellissima colonna sonora per Wait Until Dark . Suoni e arrangiamenti che significano altre cose, l’orchestra che si spezza e si sospende nel vuoto invece di rincorrere, inseguire, aprire e chiudere cerchi. Un jazz che esce dall’incubo dello standard.