Naked City, Fat City, Sin City. Inutile tornare alle radici oppure più avanti alle recenti riletture di quell’immaginario urbano che marcisce dentro la coscienza individuale. Il film di Simon West si serve certamente di un imprimatur come quello di William Goldman, straordinario sceneggiatore che qui torna sulle tracce di Heat, il tormentato film diretto in parte da Dick Richards nel 1986 e tratto da un suo romanzo, ma toglie tutta quella decadenza e quelle false partenze che caratterizzavano un’opera imperfetta e con il fascino crepuscolare dei progetti completamente falliti.
West replica quasi tutte le scene, inclusa una lunga partita a Black Jack e al posto di Burt Reynolds ci mette Jason Statham, bodyguard nella strip principale di Las Vegas. Figura liminale tra il private eye e il tirapiedi, Nick Wild (Statham) fa da cerniera tra la facciata luminosa dei casinò e la criminalità organizzata. Ossessionato dal gioco d’azzardo, sogna la Corsica come possibilità di fuga, tanto che in tutte le sequenze che precedono i corpo-a-corpo, l’immagine di una vela funziona da innesco meditativo per la successiva scarica di violenza.
Wild Card cerca di ripercorrere quelle deviazioni dai climax più violenti che attraversavano tutto “Heat”, film ritagliato perfettamente sugli aspetti malinconici di Reynolds e che si lasciava indietro personaggi, situazioni, corpi, in una serie di buchi neri narrativi o improvvise dilatazioni, come la già citata sequenza della lunga partita a Black Jack.
Purtroppo, Statham in pieno taedium vitae crepuscolare non funziona proprio anche se come Reynolds non usa pistole e al posto delle arti marziali sciorina le sue capacità atletiche servendosi di armi non convenzionali sul modello del Denzel Washington di The Equalizer.
Simon West dirige i movimenti in perfetto stile videoludico riducendo a zero l’intensità, sopratutto se si pensa a I Mercenari 2, che dell’accumulo tra corpi e un utilizzo selvaggio della CGI aveva fatto il suo incredibile punto di forza.
Al contrario “Wild Card” cerca innesti poco convincenti nei tempi della commedia, si inventa uno spazio intimista posticcio, recupera l’ironia delirante del già citato I mercenari 2 ma senza mordente, tanto che l’unica sequenza che sintetizza al meglio tutti questi aspetti è quella condotta dalla splendida Dominik García-Lorido, che con il volto tumefatto al cinquanta per cento come quello di Mabel Karr nel Miss Muerte di Jesús Franco, minaccia il pisello di Milo Ventimiglia con un paio di forbici giganti.
Il motore è senz’altro quello parodico, ma ci sarebbe voluto ben altro propellente.