martedì, Novembre 5, 2024

Judy di Rupert Goold, Festa del Cinema di Roma: recensione

Per Louis B. Mayer il 1939 è un’annata d’oro: Via col vento si appresta a fare incetta di statuette e a diventare, imbattuto per un’enormità di tempo, il maggior incasso della storia del cinema, mentre Il mago di Oz scrive la pagina più rappresentativa del modo di produzione hollywoodiano.
Alla MGM Frances Ethel Gumm, alias Judy Garland, sul set da quand’aveva due anni, viene scelta per interpretare l’indimenticabile Dorothy Gale, abitare per sempre gli immaginari collettivi, entrare insomma nelle scarpe rosse – scomode ma drammaticamente insostituibili – della star.

Il biopic scritto da Tom Edge (The Crown) e diretto da Rupert Goold (True Story) si apre sul volto già dolente di una Judy giovanissima e allarga il campo alle angherie di un produttore dispotico che fonda la lealtà sul senso di riconoscenza (“sei solo una campagnola, Judy”) contrattualizzando, di fatto se non sulla carta, persino le pillole per colmare il senso di fame (“ci sono milioni di ragazze più belle e più magre di te, Judy”) e i sonniferi per dormire in quelle poche ore di pausa dal lavoro.

L’incanto delle scenografie cui una fotografia satura tenta di restituire la meraviglia del technicolor viene smascherato dall’evidenza delle sue menzogne specchiate negli occhi tristi, ma mai privi di quel brillio che Mayer deve aver contribuito ad individuare/costruire, che ritroviamo identici in quel di Londra, 1968. Neanche cinquantenne eppure logorata da un destino già scritto fatto di dipendenze somministrate e fragilità incommensurabili, a restituirle qui tutta la dignità dell’indiscusso talento da performer c’è una Reneè Zellweger rediviva che, in un toccante parallelo con la propria carriera, tanto amata dall’industria per poi essere abbandonata in pasto a quei leoni che una volta l’avevano adorata, fa brillare di nuovo, come mai prima d’ora, la propria stella attraverso il recupero coinvolto e appassionato di quella della Garland.

E’ questa l’unica corposa luce che rischiara come un faro nel buio le circostanze di un film veramente troppo convenzionale per risultare in qualche modo incisivo.
Il ritratto, risospinto di continuo indietro e avanti nel tempo attraverso didascalici flashback che spiegano l’origine ancestrale di un malessere presente, è ridotto al minimo della creatività sul piano linguistico, dell’emotività su quello della storia. I primi piani contratti e pregnanti di Reneè insieme alla messa in scena delle ultime esibizioni canore live della sua Judy riescono a convogliare i riflettori sul dramma pubblico e privato della donna e della madre prima che dell’attrice, ma non possono infatti sopperire a una dilagante mancanza di tono.

Mai davvero brioso nella dispersione sistematica di qualche brillante gag buttata via, neppure compiutamente melodrammatico data l’assenza di picchi e cadute, il secondo film di Goold si accomoda senza intraprendenza nella linearità discorsiva riponendo ogni speranza nella prova della sua protagonista cui però, in definitiva, non fa che bruciare il terreno.

Attorno a lei vortica un numero cospicuo di personaggi del tutto dimenticabili che, come questo Judy, finiscono per affossare una testimonianza di cui non sono all’altezza.

A risollevarla arriva, in ultima battuta, la conferma invece di esserlo da parte della Zellweger, in un commosso omaggio all’eterna, indimenticata ragazza degli arcobaleni.

Veronica Canalini
Veronica Canalini
Critica Cinematografica iscritta al SNCCI. Si anche classificata al secondo posto al concorso di critica cinematografica “Genere femminile: quando le donne criticano il cinema” indetto da Artemedia, oltre a scrivere di Cinema per Indie-eye, si è occupata di critica letteraria per il Corriere del Conero.

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