Paco León si lascia alle spalle la madre Carmina Barrios, protagonista dei suoi due precedenti film, per imbarcarsi in un’altra storia di famiglia incentrata sul diverso assortimento di parafilie. In comune con Carmina o revienta e il successivo Carmina y amén c’è uno sguardo disilluso sul collante che tiene insieme le coppie, un meccanismo che viene osservato con ambizioni entomologiche e qualche confronto con il mondo animale a partire dai titoli di testa metamorfici, salvo poi modularne i toni sul registro della commedia pecoreccia.
Che non venga in mente il primo Almodovar, solo perchè León si è inventato personaggi che hanno un rapporto conflittuale con i propri desideri al punto da forzare i limiti di quel recinto che chiamiamo normalità. La Spagna di Kiki & i segreti del sesso non è quella post-franchista di Pepi, Luci, Bom e rispetto a quella debordante iperrealtà esplosa dai frammenti della cultura pop e dal sottosuolo di Madrid, sembra di assistere ad un grigissimo teatrino famigliare dove il sesso è l’unico propellente che muove e stabilisce le relazioni.
Nelle intenzioni di León c’è sicuramente il tentativo di restituire un quadro mortifero e sconfortante di un’umanità ridotta alla manifestazione degli istinti primari, ma è un pensiero debolissimo che esaurisce tutti gli stimoli nei primi venti minuti del film, per poi disperderli nella successione di gag senza vita, se non quella che attraversa i suoi interpreti. In questo senso, la parte migliore del film di León è affidata alle capacità improvvisative degli attori, la cui fragilità riesce a inceppare la concertazione di un balletto programmaticamente crudele.
Quando León sembra suggerirci che non è possibile uscire da una concezione anale della vita, tanto da regalarci una serie di ritratti meschini basati sull’impossibilità di amare se non attraverso un riflesso di se stessi, sono proprio i suoi attori a rompere lo schema con alcune magnifiche incertezze che li rendono umanissimi, nel riconoscere la parte più bassa degli istinti come rilevatore delle proprie sofferenze.
Si tratta ovviamente di piccolissimi frammenti di cinema, piccoli gesti e improvvise contrazioni del volto in direzione contraria rispetto ad un film che plasma l’immagine sulla parola.