L’equipe del palazzo che si stringe intorno a Nicolas III, il re dei belgi, istruisce Duncan Lloyd, regista di documentari istituzionali con il compito di rendere più viva l’immagine di un monarca ormai solo e demotivato. Tra la consorte, il suo ufficio stampa e il consigliere più fedele, si stabilisce una connessione iperattiva che non consente a Lloyd di scegliere inquadrature, scene e andamento narrativo del suo film “di servizio”.
Durante una visita a Instanbul, tutto lo staff segue il regnante, ad eccezione della moglie, costretta a casa per un fastidioso raffreddore. Una tempesta solare li bloccherà in loco, mentre dalla madrepatria giunge una notizia sconvolgente: la Vallonia ha dichiarato la propria indipendenza con un gesto violentemente secessionista e un’affermazione altrettanto netta: “Siamo stufi”. Il Belgio crolla.
Comincia da qui il viaggio picaresco dei nostri, bloccati dai turchi e costretti a fuggire attraversando i balcani con la videocamera di Duncan Llloyd sempre accesa e il film istituzionale ormai occhio fisso su una delirante avventura glocale.
A quattro anni di distanza da “La quinta stagione“, in concorso proprio qui a Venezia nel 2012, la coppia di autori belgi sembra cambiare radicalmente l’impostazione del proprio cinema, irridendone le qualità statiche, la costruzione per tableaux vivants e perdendo per la strada il lavoro sul suono che aveva caratterizzato la loro ultima opera.
In realtà, il gusto per il bozzetto, l’attenzione alle tradizioni locali e al rapporto dell’individuo con la natura, soggetto ad inesorabile entropia, rimane al centro del loro cinema, attraverso il veicolo della leggerezza, aspetto che nei film precedenti era circoscritto da alcuni momenti rituali, forse l’unica finestra che ci consentiva di scorgere i relitti di un cinema libero, altrimenti chiuso nella staticità pittorica dei riferimenti (Dino Valls in primis).
King of the belgians è un film senza dubbio divertente, rovescia le priorità dei suoi autori, pur non smarcandosi del tutto dai difetti che congelavano il cinema della coppia belga, prima che potesse stabilire veramente un contatto più vivo con i corpi, al di là della composizione pittorica che li imprigionava.
Anche in questo caso è l’impianto marcatamente surreale a fare da cornice per tutta la durata del film, tanto da non consentirci di uscirne se non in alcuni momenti dove la solitudine di Nicolas III diventa evidente, anche nel rapporto positivo con la natura e il paesaggio.
Il tentativo di rappresentare il vecchio continente attraverso la fragilità dell’Europa orientale è un geniale motto di spirito, tra resistenze folkloriche e stereotipi cortocircuitati; è una funzione del racconto che assolve perfettamente allo spaesamento di un mondo chiuso costretto a confrontarsi con una realtà aliena, tanto da confondere abilmente la vena satirica di Brosens e Woodworth con la solitudine della politica, osservata con accondiscendente tenerezza, probabilmente lo sguardo più sincero dell’intero film.