Presentato in anteprima a Locarno 2015, Kommunisten è diviso in sei parti, di cui cinque sono frammenti di lavori del passato della coppia Straub-Huillet.
Nell’ordine, in una declinazione a blocchi dello spazio cinematografico, si susseguono senza soluzione di continuità un estratto da Le Temps du Mépris di André Malraux, 1935; La speranza da Operai, contadini, 2001; Il popolo da Troppo presto/troppo tardi, 1982; Le Apuane da Fortini/Cani, 1976; L’utopia comunista da La morte di Empedocle, 1987; Nuovo mondo da Peccato nero, 1990.
Nel finale Danièle Huillet, indivisibile compagna di vita e di arte, mancata nel 2006, con “ Neue Welt? ” da Hölderlin chiude Peccato nero e il film.
La forte tensione etica e il senso sotteso ai quadri che il cineasta ottantunenne espone sulla storia recente dell’uomo, quella del ventesimo secolo e delle sue utopie, riporta alla memoria l’indimenticabile scena finale di Sicilia!,1999, da Conversazione in Sicilia di Vittorini. Nella piazza vuota del paese devastato dal fascismo e dalla miseria, l’uomo, deluso, smarrito, torna: “La quiete della non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui ”.
Alle sue spalle rimbalza una cascata di parole, e dicono che invece il mondo è luce, ombra, freddo, caldo, gioia, non gioia, speranza, carità, infanzia, gioventù, vecchiaia, uomini, bambini, donne, donne belle, donne brutte, grazia di Dio, onestà, memoria, fantasia, pane e vino, salsiccia, latte, capre, maiale e vacche, topi, orsi, lupi, uccelli, alberi e fumo, neve, malattia, guarigione, morte, immortalità e resurrezione. E’ l’arrotino, con le braccia alzate: “ Uno,qualche volta, confonde le piccolezze del mondo con le offese al mondo. Troppo male offendere il mondo ”. E’ la risposta dell’uomo semplice che si oppone alla quiete della non speranza, che è il vero “offendere il mondo”.
Kommunisten è un viaggio nell’utopia del cinema e della storia, il punto di approdo della poetica straubiana allo snodo cruciale di un’epoca che sembra aver dimenticato il passato e non vedere il futuro. E’ una sfida, quella di un cinema che da oltre 50 anni ha scelto la coerenza e l’impegno, colpendo a fondo ogni rassegnazione.
Occorre “ trasformare tutto in azione, attesa e speranza del tempo, il futuro in passato, e nominare le cose per fermarle come ricordo, facendole riemergere dal silenzio delle origini ”.
Così F.Mollia in un lontano saggio del 1963 parlando di Pavese, e sembra parli di Straub, che con Pavese e Vittorini condivide una dote rara, il non essere mai compiaciuto di sé stesso.
Singolare convergenza d’intenti e idealità che rimbalzano da un capo all’altro di un secolo troppo “breve” per aver sanato le sue ferite, può essere trasferito al cinema di Straub, alla poesia sovversiva distillata dalle sue visioni, quello che Vittorini scriveva a Togliatti su “Il Politecnico” nel 1947: “ Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo, ch’egli soltanto sa scorgere nell’uomo “.
In quest’ottica, anche le parole di Pavese: “ Comunista non è chi vuole. Siamo troppo ignoranti in questo paese. Ci vorrebbero dei comunisti non ignoranti, che non guastassero il nome ”, potrebbero essere sue.
E allora da Malraux a Fortini, da Vittorini a Empedocle/ Hölderlin, sconfiggere l’ignoranza vuol dire fare un cinema autenticamente “semplice”, che delle istanze del popolo faccia il suo perno anche se, incredibilmente, quel cinema continua ad essere relegato in nicchie remote, quasi fosse portatore di un aristocratico rifiuto a scendere in platee affollate.
“Noi crediamo che il nostro sia un cinema semplice – rispondeva Jean-Marie Straub in un’intervista al Film-studio nel 2005 – E’ indubbio che per apprezzare al meglio i nostri film bisogna avere degli interessi: il cinema innanzitutto, l’arte e la letteratura. Ma, soprattutto, bisogna avere delle idee sul mondo. In tutto questo non mi sembra ci sia nulla di elitario. Il nostro è l’unico cinema semplice, sono gli altri a realizzare film retorici, in cui davvero non si capisce di cosa si parla.”
Il breve film inizia con l’inno della DDR in cui il verso: “Alle Welt sich nach Frieden seht …” (Tutto il mondo anela alla pace …” ) suona come beffa storica da un lato (infatti seguirà un surreale interrogatorio tratto da Malraux in un ufficio della Gestapo), ma può anche funzionare da collante fra le sezioni del film, imprimendo quello slancio che vedremo emanare dalla climax ascendente che lo connota e che dà al “sogno di una cosa”, di cui si parla in vario modo, il rilievo maturo e la plastica compiutezza di una promessa credibile.
Seguono tre brani selezionati dal testo di Malraux: profetica anticipazione degli orrori nazisti del decennio successivo, va in scena un frammento tratto da un tipico interrogatorio di prigionieri politici, con due uomini in piedi inquisiti da una voce fuori campo, brutale, volgare.
Nel secondo quadro lo schermo resta nero e una voce parla di prigionia e tortura, di resistere, di fuggire nell’ “ irresponsabilità totale del sonno o della follia ”, di “ strapparsi da sé per non dare di sé che ciò che non era essenziale ”.
La voce è artefatta, l’intonazione innaturale. E’ il modo di Straub di rifiutare l’innaturalità della finzione che finge naturalezza con trucchi cinematografici.
“ Non facciamo metafore sulla tortura! ”.
Quindi due inquadrature fisse, è un interno domestico. Due coniugi, di schiena nel vano di una finestra, guardano fuori e parlano fra loro, ma i suoni del mondo esterno convivono alla pari con i loro discorsi.
In Speranza, da Operai, contadini (2001), una donna e due uomini leggono un testo di Elio Vittorini davanti ad un bosco. Uno dei due uomini parla del suo cambiamento e di ciò che significa essere comunista nei rapporti quotidiani e con la sua donna.
“ Non vi fu rottura fra di noi, e la nostra cosa riprese subito il suo movimento che ormai era di crescere…”
La donna risponde, con forte cadenza siciliana: “ Ora vedevo in lui come dev’essere un uomo: tenace di fronte alle cose, eppure anche dolce e comprensivo, non soltanto con me…
Ti sembro ancora un fascista? Io non gli rispondevo
Mi inteneriva vederlo contento, non per sé, ma della contentezza che era lì, nel nostro villaggio, si sarebbe detto che pensava di doverla fabbricare nel villaggio per poterne poi avere una sua parte.
Mostrava di aver bisogno che la sua gioia fosse di partecipare ad una gioia generale…”.
Una lunga sequenza da Trop Tot, Trop Tard,1980, riprende, al modo dei Lumière, operai in uscita dalla fabbrica in Egitto, mentre la voce di un arabo legge un brano della postfazione di Luttes de classe en Egypte di Mahmoud Hussein, che parla della “… storia delle lotte contadine in Egitto e della liberazione dai colonizzatori occidentali, ma non dell’oppressione di classe nel proprio paese” (D.Huillet).
Segue la lunghissima panoramica a 360° di Le Apuane da Fortini/Cani (1976), con il carrello che scorre lento e cattura forme, suoni, movimento, spingendo “gli occhi su, verso la divina natura” per poi tornare giù a ricordare i massacri di civili perpetrati lì dalle SS durante la ritirata dell’esercito tedesco, nell’ agosto 1944.
Il ricordo del nazismo apre alla lettura di Franco Fortini di un testo in cui alla mitizzazione del nazismo e alle convenzionali e pacificanti interpretazioni correnti come follia o bestialità, oppone la “banale” normalità della sua presenza nel mondo anche in altre forme: “C’è stato un modo molto reale di dimenticare quegli uccisi, il modo tenuto dalle classi dirigenti italiane nei primi dieci anni del dopoguerra … Oggi si preferisce parlare delle stragi naziste per non guardare la verità di Indonesia, Vietnam, America Latina , Congo…
… il limite moralistico con il suo ottimismo di fondo ha continuato fino a ieri a favorire una fissazione del nazismo in forme mitologiche di cui hanno beneficiato in sostanza le forme atipiche di esso, ossia quelle altrettanto feroci dell’imperialismo moderno.
Per dissolvere quella fissazione e far ritrovare alla strage nazista il suo carattere di sanguinosa normalità è stato necessario che entrassero nella lotta i paesi nei quali il colonialismo europeo aveva installato ben più vasti lager di quelli nazisti e ben più numerosi milioni di vite umane avevano distrutto di quante ne avessero dissolte le SS …
E finalmente bisogna dire che nell’azione di coloro che con maggiore coerenza ed eroismo hanno combattuto il nazismo … ho sempre sentito che c’era qualcosa che andava al di là della lotta contro il nazismo, qualcosa che, non fosse che per un attimo, il supremo, concorresse, lo sapessero o no, al sogno di una cosa, che gli uomini hanno da tanto tempo, all’enorme sogno degli uomini”.
E’ l’Utopia comunista (da La morte di Empedocle, 1987), contenuta nel grande discorso finale di Empedocle che si apre con il celebre: “Avete da lunghissimo tempo sete d’inabituale…” e si chiude con una sorta di iconostasi fatta di immersione nella natura di Danielle Huillet, seduta immobile su un pendio, macchina fissa a riprenderla per lunghi secondi, quindi improvvisamente la testa gira all’indietro a guardare un altro mondo (Neue Welt?).
Ipotesi di un futuro sospeso su una speranza fragile.
“Si vedrà allora che da tempo il mondo custodisce il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di prendere coscienza, per possederla veramente. Si dimostrerà che non si tratta di tirare una linea retta tra passato e futuro, bensì di portare a compimento i pensieri del passato. Si vedrà in ultimo che l’umanità non inizia un nuovo lavoro,ma porta a termine con coscienza il proprio antico lavoro”.
(dalla lettera di Karl Marx ad Arnold Ruge,1843)