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Koudelka – Fotografa la terra santa di Gilad Baram: la recensione in anteprima

Koudelka - Shooting Holy Land

Shooting Holy Land’, il documentario che segue il leggendario fotografo ceco della Magnum Josef Koudelka in Terra Santa, è un’invocazione alla vita ‘analogica’, alla pazienza di aspettare, all’educazione dello sguardo. E non solo perché documenta il processo creativo di un quasi ottantenne molto vispo che vive ancora benissimo senza account Gmail e telefono cellulare, ma anche perché l’autore delle riprese, il giovane fotografo e regista israeliano Gilad Baram, accarezza la macchina da presa con mano morbida, la indirizza con calma, le concede tutto il tempo necessario per assorbire l’immagine, immobilizzarla in inquadrature statiche di eccezionale solidità visiva, ieratiche e austere nella loro granitica consistenza.

Koudelka – Shooting Holy Land

Josef Koudelka è uno dei più celebrati fotoreporter del mondo e sorprende il candore di un uomo che definisce come un caso isolato la sua oramai iconica testimonianza, nel Sessantotto, dell’invasione sovietica di Praga: «sentivo», confessa, «che era qualcosa che mi riguardava, che non potevo far a meno di affrontare». L’aspetto più interessante del suo reportage in Israele e Palestina («non volevo andarci, pensavo che in Europa ci fosse ancora molto da fare») poi confluito nel volume Wall che raccoglie le foto scattate in Medio Oriente tra 2008 e 2012, è il suo presupposto concettuale: nel solco del conflitto eterno tra natura e civiltà, tra ragioni del paesaggio («che non può difendersi») e presunzione culturale, Koudelka sceglie di ‘disumanizzare’ gli ambienti, nel senso di liberarli dalla presenza umana, dalle persone e dai corpi, per umanizzarli paradossalmente di più, per restituirli all’occhio di chi guarda più trasparenti e vulnerabili, suscettibili di un’epifania inattesa sui costi, al contrario molto umani, della guerra.

Koudelka – Shooting Holy Land

Se lo scatto realizzato in un prato dall’erba gialla e incolta con sagome di soldati quasi fossero militari in carne ed ossa, è in grado di assestare un colpo forte e diretto, è proprio in virtù della sostituzione dei corpi con le figure, un’evasione nella stilizzazione che riesce ad esprimere nel modo più nitido e ‘corporeo’ come la guerra, la violenza, la paura e la morte non siano larve di simbolica virtualità, ma realtà di un dolore plastico, avvertito nella carne, scontato nella verità dei giorni, nella materialità dell’esistenza quotidiana.

Koudelka – Shooting Holy Land

«C’è qualcosa di spirituale in questi posti, indipendentemente dal fatto che uno creda o non creda in Dio. Se Gesù tornasse in vita, non mi stupirei volesse calpestare di nuovo proprio questi deserti»: la Terra Santa è un luogo di sintesi tra radici profonde della nostra anatomia spirituale e scenari contemporanei di repressione. «Il Muro che separa Israeliani e Palestinesi è uno, ma due sono le prigioni che produce», dice Koudelka a una donna araba che annuisce e, sommessamente, condivide la riflessione. Interrogare i minareti spogli, gli edifici angolosi, le piazze vuote, il filo spinato che s’aggroviglia è un’indagine silente sugli indizi che l’architettura, come tentativo della tecnica di addomesticare la natura, lascia dietro di sé, rivelazioni sui conflitti morali dell’uomo, sulle sue inquietudini, le sue perversioni, i suoi deragliamenti. Koudelka, l’esiliato che ha conquistato il mondo («ho provato sulla mia pelle cosa significa perdere la propria terra, ma è stato un vantaggio») sa leggere dietro le forme inanimate l’anima di chi vi inciampa, di chi si ritrova per caso ad affidare tutta la sua vita a un piccolo spazio, a un’angusta porzione di mondo particolarmente maltrattata.

 

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