Vincitore di diversi premi internazionali, tra cui il Sarajevo Film Festival 2014 come Miglior film, La canzone perduta (Annemin sarkisi) è l’ultimo capitolo di una lunga storia che potrebbe iniziare con le parole che sul cinema turco disse in Chambre 666 di Wim Wenders il grande Yilmaz Guney (Yol, Umut, Le mur), esule a Parigi dove morì di lì a poco:
“Ci sono germi di un cinema giovane che le forze dominanti reprimono e vogliono ridurre al silenzio per mezzo di misure penali, punendoli per il solo fatto di esistere”.
Era il lontano 1982. Oggi, a sollevare la questione curda, (autentico genocidio rimosso dal mondo intero) non si rischia la galera né, come Guney, si muore esuli, ma se ancora nel 2008 Ozgur Dogan e Orhan Eskikoy girarono Una valigia e due lingue con finanziamenti a dir poco risibili, se per riuscire a vedere in occidente un film come Hejar di Handan Ipekci bisogna far carte false, allora per i curdi la strada è ancora lunga da percorrere.
Ma la storia del cinema segue incessante il suo corso e rende giustizia, tessendo reti che il tempo custodisce.
Oggi, a dodici anni di distanza, Erol Mintaş potrebbe essere Recep, il protagonista bambino ormai cresciuto di Karpuz kabugundan gemiler yapmak (Boats Out of Watermelon Rinds) film del 2004 di Ahmet Ulucay.
Recep, ragazzo di bottega del venditore di angurie del villaggio, sognava di diventare un movie man, e con un proiettore di legno e una batteria a conduzione elettrica, chiuso in cantina con l’amico Mehmet e di nascosto dalla madre, che spesso arrivava in spedizioni punitive, cercava di far muovere immagini con spezzoni di pellicole tirate a mano.
“Se guidi una barca fatta di scorze di anguria sei destinato ad affondare presto” gli diceva sempre il cocomeraio di Tepecik, piccolo villaggio dell’Anatolia che nessuna mappa riporterà mai.
Ma la barca di scorze anguria non è affondata se Erol/Recep continua a raccontar favole che divertono i bambini e fanno pensare i grandi. E una favola è l’incipit di Annemin sarkisi, dove le buffe gesta del corvo che voleva imitare i pavoni è raccontata con abilità mimetiche degne di un grande attore dal maestro elementare, nella piccola aula sguarnita di una scuola rurale sperduta in un deserto di stoppie. I bambini ridono, si divertono un mondo e aspettano ansiosi il finale. Ma il finale sarà il sequestro del maestro da parte di un commando di polizia che lo butta in macchina e riparte sgommando, inseguito dal codazzo di bambini urlanti.
E’ l’unico riferimento politico esplicito, i raid punitivi per la caccia al curdo che Yesim Ustaoglu filmò nel ’99 per il potente Güneşe Yolculuk (Viaggio verso il sole) lasciano il posto ad una storia che sembra virata al seppia, tanto è intimista, rarefatta, essenziale, estrema nella definizione di un universo figurativo concentrato solo sui due protagonisti.
Illuminato a tratti dall’arrivo di Zeynep (Nesrin Cavadzade), la giovane donna di Alì (Feyyaz Duman), il protagonista sfollato a Istanbul con l’anziana madre Nigar (Zübeyde Ronahi) e con tutta la gente del villaggio fatto evacuare dai turchi, la fresca bellezza della donna non basta a ridare vigore ad esistenze che sembrano consunte, svuotate.
Zeynep si é da poco scoperta incinta e nel gioco di sguardi e di silenzi con Alì si vanifica quella che poteva essere una svolta, un nuovo corso di vita. La vecchia madre sempre più triste che spesso Alì corre a recuperare in giro smarrita per la città, la durezza di una vita da profugo che rallenta la sua passione di scrittore, il lavoro da maestro (come il padre, mai più tornato da allora) in una scuola che non compare mai, sono tutto il suo orizzonte.
Istanbul, la metropoli che inghiotte nella sua periferia più anonima i curdi scacciati dai loro villaggi, è solo un intrico di strade e viadotti dove Alì passa con la sua vecchia moto e la madre aggrappata, più che seduta, dietro di lui. Qualche rara escursione all’esterno, la vita della vecchia signora è chiusa fra le quattro mura dell’appartamento anonimo, mentre dalla finestra del salotto guarda sconsolata i grattacieli lontani sfocati nella nebbia, convinta che un giorno tornerà al villaggio.
Spariti i minareti, le moschee dorate e i battelli sul Bosforo, Istanbul diventa il vero regno della tristezza, ma non quella del mito letterario, l’huzun di Orhan Pamuk, è una tristezza fatta di assenza e perdita, quella di un popolo smembrato e irriconoscibile privato di radici, affetti e lingua.
Erol Mintas affida alla centralità fisica della madre, alla sua figura mite e caparbia nella ricerca di quella vecchia canzone, Dengbej di Seydou Silo, che non si trova più fra le cassette, forse sparita nel trasloco, il senso di un disperato bisogno di ancoraggio alla propria storia perduta. Il rapporto madre/figlio ricorda illustri precedenti fra cui spicca il Sokurov di Madre e figlio, fatto com’è di dolcezza e tenera impotenza. E’ una piccola storia piena di nodi, di durezze, di affanno, che però si snoda leggera e trova il suo perno nel valore fondativo assegnato alla lingua da una comunità che tenta di mantenere la sua identità.
Dice Erol Mintaş: “ Sono un curdo cresciuto in Turchia negli anni Novanta, quando tutti i legami dei curdi con la loro lingua materna erano stati tagliati. Per me, mia madre è stata di fondamentale importanza per mantenere viva la mia lingua. Mi raccontava tante storie e forse questo mi ha fatto sentire il bisogno di fare lo stesso. Ci sono molte persone come la madre di Ali, il protagonista, non solo curdi ma molti immigrati della zona del mar Nero, che hanno dovuto lasciare le loro case. Quando ero all’Università ho lavorato sui diritti delle minoranze e ho conosciuto molti di loro. Da questo è nata l’idea del film. È stato difficile trovare finanziamenti ma siamo stati aiutati dalla comunità curda e dal finanziamento collettivo online.”
Il turco si alterna perciò al curdo nel linguaggio dei protagonisti e in questo torna la lezione di un altro piccolo capolavoro del cinema curdo, Hejar (Buyuk Adam Kucuk Ask – Big Man, Little Love) 2001, di Handan Ipekci, film di barriere, di porte che si chiudono, di spioncini per guardare in silenzio il raid della polizia nell’appartamento di fronte, di tendine appena sollevate alla finestra per vedere i cadaveri portati via dalle ambulanze in strada. Il vecchio giudice turco, intransigente custode della sua tranquillità, e la piccola bambina rimasta sola, Hejar (in curdo “schiacciata”), che parla una lingua sconosciuta e proibita, s’incontreranno proprio con le parole, poche, quelle necessarie perché il mondo non sparisca del tutto.
“Noi parliamo nella veglia e nel sonno.Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo e leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente. Parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla” (M.Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad.Caracciolo/Perotti, Mursia,Milano, 1991)
La favola del corvo e dei pavoni chiude ad anello la storia di Alì e sua madre, ora la racconta lui ai suoi alunni, in turco e in curdo, ed è bravo quasi quanto il padre.