E’ tutta nordica l’attitudine con cui Halla, la donna elettrica di Benedikt Erlingsson, combatte la sua guerra verde per la salute dell’Islanda; woman at war, come da titolo internazionale.
Il campo però è lunghissimo e include i più scottanti dibattiti a proposito dell’ecosostenibilità della nostra vita sulla Terra, oltre i ghiacciai tra cui sono incastonati gli altopiani, protagonisti e teatro della scena.
Dalla facciata prepotentemente ambientalista, e per di più femminista, l’opera seconda di un regista nato come tale in “Storie di cavalli e di uomini” (2013) dopo aver fatto tesoro di un certo milieu vontrieriano recitando per il danese ne “Il grande capo” (2006), nel suo essere fuori dal coro si presta come strumento per le cause che l’hanno riconosciuta portabandiera, ma a latere anche del coro che si vorrebbe qui rappresentato, ne stempera ogni pedissequo eroismo canzonandolo attraverso uno proprio e particolarissimo che, essenzialmente intimo, percorre la tradizione drammaturgica per apparire, nelle sembianze di bande e cantanti folk, proiezione tangibile di e accanto a Halldóra Geirharðsdóttir, due volte straordinaria interprete.
Halla è una donna di mezza età che dà lezioni di canto, titanica già tra i capisaldi della sua quotidianità, con poche relazioni e la fatica di gestirle, quelle poche: un amico/complice tra i membri del governo e appunto, una sorella gemella tutta yoga e meditazione la cui massima aspirazione per la pace sua e del mondo è ritirarsi in un ashram. C’è stato un tempo, si intuisce, in cui Halla ha desiderato una vita di coraggiosa normalità, essere madre single, essere madre adottiva: una possibilità ormai sfumata e tornata impellente proprio quando ha deciso che se non le è stato dato di salvare una vita, tanto vale salvare il pianeta.
E’ lei infatti che boicotta a più riprese il tentativo del suo paese di vendersi a dei colossi industriali cinesi, e lo fa interrompendo le linee elettriche con i più improbabili arco e frecce, munita di una forza fisica, oltre che psicologica, odissiaca, sì disarmante.
Tanta prodezza non basta a far sprofondare il film nel marasma dei drama/action movies corroborati dal fascino di un qualche supereroe di turno, anche il più analogico che sia, perché La donna elettrica è più di tutto un’acuminata tragicommedia. Erlingsson conosce il mezzo, intrattiene con i più classici degli espedienti che mantengano alta la tensione, tra minuti contati alle calcagna e interminabili inseguimenti, lasciando carta bianca a uno scenario che toglie il fiato – letteralmente, se devi correrci attraverso- e alla corporeità eloquente di una degna erede vichinga, di cui, riconosciutane la mirabile ostinazione, non si può non sorridere, sorridere di un’ironia gelida, così fine da disseminare una quantità sterminata di input nei territori più insospettabili.
C’è una sana levità in quella donna che guarda a un drone sfoggiando una maschera di Mandela e riesce a non farsi individuare dagli elicotteri coperta da una carcassa di pecora; per nulla a cuor leggero quella stessa donna mette di continuo il suo smartphone in frigo per paura di essere osservata, e intanto fa i conti con il dramma irrisolto di conciliare maternità e carriera. Che poi quest’ultima sia da ecoterrorista è solo una contingenza.