Gary King, alcolizzato sulla soglia dei 40 anni, è rimasto bloccato per maturità e stile di vita alla notte di 20 anni fa che considera l’apice della sua esistenza, ovvero quella in cui in compagnia dei suoi amici del liceo ha cercato di portare a termine il Miglio d’Oro, maratona alcolica nei dieci pub di Newton Haven, sua cittadina natale. In preda alla nostalgia, Gary raduna il suo riluttante gruppo di amici e li coinvolge in un nuovo tentativo di portare a termine l’impresa, arrovando a bere una pinta al decimo e ultimo locale, il World’s End. Nel paesino però nessuno sembra ricordarsi di loro e delle loro gesta giovanili. Forse non erano un granchè, come gesta, o forse c’è qualcosa di strano…
La Fine del Mondo è l’autoesplicativo capitolo finale della cosidetta “Cornetto’s Trilogy” di Edgar Wright, scritta insieme sodale Simon Pegg, con il quale ha realizzato alla fine dello scorso millenio il piccolo cult televisivo Spaced. Da quel momento ha saputo espandere l’aura di culto a tutti i suoi film successivi, proponendo un’estetica “a banda larga”, caratterizzata da un’amplissima portata di stimoli, imbevuta di fidelizzazione seriale e richiami all’immaginario nerd-cinefilo-fumettistico, calzata a pennello su di una generazione che quotidianamente rumina film e serie tv in streaming, metabolizza generi, sub-generi e post-generi, senza per questo pretendere di meno in termini di coerenza e significanza narrativa.
Dopo aver fatto ricognizione sullo zombie-horror con la Notte dei Morti Dementi e sul Poliziesco/slasher con Hot Fuzz, la combriccola di Wright dedica la propria arte ricombinatoria alla fantascienza, nella fattispecie del sottogenere paranoico in cui una razza aliena cerca di dominare quella umana sostituendosi alle persone (Il Villaggio dei Dannati, Essi Vivono, Dark City e molti altri). Si tratta della scelta ideale per ripetere lo schema dei due film precedenti: in una piccola e apparentemente tranquilla cittadina inglese, una coppia o un gruppo di amici profondamente anti-eroici si trova a difendersi eroicamente da una moltitudine spersonalizzata (e per questo massacrabile senza rimpianti in acrobatiche scene di lotta) che vuole renderli uguali a sè tramite contagio fisico e/o ideologico.
Ancora una volta, quindi, non si tratta di parodia quanto della convocazione di scenari e topoi di nicchie filmiche che meglio si adattano al genere autarchico disegnato dalla trilogia, per il quale potremmo coniare l’adeguatamente autoreferenziale neologismo di Pub-Siege Bromance Comedy. In definitiva, se spogliato dalla giocosa e irriverente polpa meta e dalle rocambolesche scene d’azione, lo scheletro tematico dei film di Wright e Pegg è la poetica spicciola dell’amicizia virile, coi suoi affetti malcelati, i tic orgogliosi e i suoi luoghi prediletti, primo su tutti, specie nell’Inghilterra provinciale di Wright e Pegg, il pub. Il conflitto finisce sempre per giocarsi tra l’irruenza alticcia e ribelle e la razionalità cortese ma omologante, che si parli di ex-fidanzate o invasioni aliene.
Personaggio dolceamaro, Gary si dimostra il carattere più singificativo per l’intera trilogia, nel suo programmatico rifugiarsi nella spensieratezza adolescenziale per sfuggire alle inamidate responsabilità della vita adulta. L’epos eroico che ammantava le proprie imprese al liceo è svanito col passare del tempo, ma l’irrompere dell’elemento fantascientifico restituisce al Miglio D’Oro l’alone leggendario che che conservava solo nei suoi ricordi. Di più, Gary non può portare a termine la sua impresa da solo, ha bisogno del suo vecchio gruppo e di rievocare i vecchi soprannomi, gli inside jokes, gli aneddoti che solo per lui hanno conservato valore.
Cos’è La Fine del Mondo, se non un effettiva rimpatriata tra amici di una vita dopo i sei anni che ci separano da Hot Fuzz. E gli invitati bene accetti alla rinmpatriata, o comunque quelli che si divertiranno di più, sono i fan più fedeli, gli amici più stretti. Anche all’interno dello stesso film, la sceneggiatura e le trovate visive, di cui il film è come al solito fittissimo, si alimentano di set-up e pay-off, di schemi fissati nella prima parte della trama e confermati o disattesi nel suo svolgimento: nessuna delle gag messe in scena conserva la stessa efficacia se isolata dal resto del film, e ne acquista se ricollegata ai due film precedenti.
La Trilogia del Cornetto è il prodotto esemplare di un cinema iper-serializzato, che guadagna respiro cinematografico grazie alla naturale capacità di Wright nel gestire tempi e registi e nel filmare le scene d’azione, ma che trova il suo elemento fondante nela recurring gag, nell’easter egg, nel strizzatina d’occhio al pubblico fedele ben oltre il risaputo postmoderno. La devozione al fandom si rivela perfino nel titolo scelto per la saga, legato ad un product placement di pochi secondi piuttosto che ad un tema o ad un’ambientazione ricorrente, riconoscibile da spettatori poco attenti o da chi ha semplicemente sentito parlare del film.
Con La Fine del Mondo, Wright e Pegg (con l’aiuto essenziale dell’immancabile Nick Frost) confezionano l’istant cult a cui hanno sempre aspirato, chiudendo alla perfezione un confanetto triplo già pronto per le mensole dei fan. Si tratta del salto carpiato del “blockbuster di nicchia”, eseguito con una qualità e sincerità di scrittura, oltre ad una dissimulazione dello sforzo, che attualmente conta davvero pochi eguali.