Il cinema è un rifugio.
Il cinema è un luogo che raccoglie tutte le energie e le convoglia sullo schermo, placandole.
Guillermo de Toro sembra ricordarcelo nel suo ultimo “The Shape of Water”, un film con la struttura simile alle forme sinuose di una conchiglia, che racchiude il rumore del mare, le cui onde sommergono il cinismo, trascinandolo via con forza e lasciando al suo posto la speranza e una possibilità all’Amore.
Una possibilità alla quale Elisa (Sally Hawkins) donna muta dalla figura esile ma presente, lascerà aperte le proprie porte. La sua esistenza scivola nella routine fatta di isolamento e silenzio, i gesti quotidiani la accompagnano e le danno il senso del ritmo nel percorso che va dal suo appartamento verso il laboratorio governativo di massima sicurezza dove lavora come addetta alle pulizie.
E’ in queste stanze che Elisa scopre un nuovo esperimento in atto, una creatura umanoide catturata nelle acque del Sudamerica dall’agente governativo Strickland (Michael Shannon) grazie alla quale potrà fare esperienza dell’umanità del “mostro”, a cui Del Toro assegna le fattezze della “Creature from the Black Lagoon”, quella del film di Jack Arnold del 1954.
Il regista messicano non manca mai di omaggiare la storia del cinema, soprattutto quello di genere e anche in questo caso lo fa rileggendo in chiave favolistica il B-movie, fornendo agli schermi (televisivo/cinematografico) un ruolo di collante fra i personaggi e le loro vicende, collocate in una dimensione spazio-temporale iconica.
Non è un caso veder scorrere sullo schermo del cinema Orpheum, collocato sotto l’appartamento di Elisa, i fotogrammi di “Mardì Gras”, musical del 1958 con Pat Boone o quelli de “La Storia di Ruth” kolossal biblico del 1960. Non lo è nemmeno nel caso delle immagini che scorrono sulla tv a tubo catodico piazzata nell’appartamento immediatamente accanto a quello di Elisa, dove vive Giles (Richard Jenkins), disegnatore a tempo pieno ma anche perso; in quello spazio passano in rassegna Shirley Temple e le esibizioni di Carmen Miranda.
L’immagine, televisiva o cinematografica, diviene consolazione ed evasione dalla realtà per i personaggi, che vi ravvisano un senso dell’immaginazione necessario per compensare le mancanze della Storia (quella dei primi anni ’60, in piena Guerra Fredda) spinta sullo sfondo, seppure Del Toro abbia utilizzato la creatura umanoide come simbolo del contenzioso fra Stati Uniti e Russia nella corsa verso lo spazio; The Asset dovrebbe essere utilizzato come Laika, il cane spedito nello spazio dai russi.
Anche il mutismo di Elisa, la principessa senza voce come ama definirla Giles, diviene chiave di lettura della realtà ad un livello superiore, non accessibile a tutti, fatto di gesti e di elementi non verbali. Attraverso questo tipo di comunicazione, il rapporto tra Elisa e la creatura si fa più intenso ad ogni incontro ambientato nella vasca dove la seconda è tenuta in osservazione.
L’erotismo che si insinua lentamente tra i due fino ad esplodere, appare in principio con delicatezza ma anche con sottile insistenza, attraverso il simbolismo di un uovo bollito lasciato da Elisa come pasto per la creatura, segno chiarissimo che protende verso l’interazione sessuale, tra copulazione gastronomica e semiotica freudiana. Un aspetto certamente presente anche nel precedente film di Del Toro, “Crimson Peak”, anche se con una chiave di lettura più cupa e meno romantica.
La costante attenzione che Del Toro ha per le creature mostruose, simbolo di grande potere, prosegue anche qui dimostrando la forza insita nelle alterità, più esplicite e visibili nel caso della creatura umanoide e più implicite nel tratteggio di un personaggio fragile ma cocciuto come quello di Elisa, che dà la forma ad un elemento possibile come l’acqua, attraverso la sua presenza, il desiderio e la volontà di andare oltre al prestabilito.