Sono tre “nessuno”, Juan, Sara (travestita da maschio) e Chauk, quindicenni pronipoti di Odisseo, piccolissimi esseri umani ormai desolatamente sbalzati fuori dalla circolarità del tempo mitico e dunque esuli da quell’eterno, luminoso presente omerico, in cui l’unico problema sembrava riuscire a non ascoltare il canto delle Sirene o non cedere alle lusinghe di Circe.
Oggi Juan, Sara e Chauk sono tre ragazzi in cammino lungo la traiettoria lineare di un tempo storico che Diego Quemada-Diez filma dal vivo, nel suo svolgersi inesorabile, insensato e doloroso, carico però di una vita segreta che lo spettatore fa subito sua, in una mimesi perfetta con le immagini sullo schermo.
Le Sirene ci sono, anche qui, ma bisogna ascoltarle. Sono quelle dell’Immigrazione, soldati armati fino ai denti messi a guardia della frontiera messicana.
Tengono a bada quelli, fra i dannati della terra, che vogliano andare a far fortuna nello splendido Eldorado che hanno chiamato U.S., prima tappa Los Angeles, una jaula de oro dove qualcuno riuscirà ad arrivare.
Sarà Juan, il più forte, di razza darwinianamente più resistente, dunque destinato alla riproduzione della specie. E così, nella splendida sequenza finale, potrà lavorare in fabbrica a raccogliere i rifiuti di una industria di stoccaggio e macellazione bovini, illuminante retroterra di frattaglie sanguinolente della società dei consumi, chiusa nella sua gabbia d’oro.
Un film di binari e treni, lenti, ansimanti, che attraversano, carichi di clandestini sul tetto, aridi deserti e lussureggianti mesetas, paesini colorati dove la sera si balla intorno al fuoco e ponti gettati sopra altissime voragini, lungo la Fascia Vulcanica Trasversale e la Sierra Madre del Sur, partendo dal Guatemala.
Road movie di ragazzi guatemaltechi in fuga dalla miseria verso U.S., definirlo percorso di formazione forse è troppo. Non ci si forma, piuttosto si muore o si viene stuprati su strade battute da bande di ogni genere, belve umane che selezionano nel mucchio le donne (e tra queste Sara) e le avviano sui camion verso destini ben noti, mafiette locali a cui fanno gola anche le loro miserie e poliziotti del posto capaci di derubarli perfino delle scarpe.
L’unica risorsa è la loro magnifica innocenza, lungo quella strada, prima di esser buttati a terra da un proiettile dell’Immigrazione, quando sembra che ce l’abbiano fatta a superare la muraglia innalzata a mò di quella cinese sulla frontiera, passando come topi nei suoi buchi.
C’è di tutto, lungo la strada per il nord, ma soprattutto c’è un mondo che non si divide in buoni e cattivi e bisogna, come dice il furbo ragazzetto di uno dei treni, “non fidarsi di nessuno!”.
Le parole sono poche, Quemada-Diez non fa un film a tesi, la denuncia è vibrante ma sottesa al dominio delle immagini e dei sentimenti che comunicano.
Rifiutando di farsi ingabbiare negli schemi di un déjà vu che l’argomento avrebbe facilmente favorito, il tempo della visione scorre in una sorta di inventività libera, che rende visibili le cose solo attraverso gli occhi dei ragazzi e diventa racconto cinematografico, in un regime di scambio continuo tra il reale e la sua percezione da parte di quel loro piccolo mondo ridotto all’osso, spolpati come sono di tutto, “povera gente che cammina / e va calpestando la terra … li definiva Antonio Machado.
Eppure Juan, Sara e Chauk riescono a non perdere la loro fresca vitalità primordiale, inestinguibile, quella forza che li fa andare avanti, nonostante tutto, perdendosi per strada, restando del tutto soli, eppure capaci, come Juan, l’ultimo, il sopravvissuto, di guardare i fiocchi di neve, nella notte, cadere sopra i suoi occhi come stelle che cadono dal cielo.
Dei tre Chauk (Rodolfo Domínguez) è un autentico indio Tzotzil, scelto in casting effettuati tra le montagne del Chiapas. E’ la figura più suggestiva, porta i segni di una cultura antica e incontaminata. Non parla spagnolo, si è unito ai due coetanei per un’attrazione istintiva verso Sara (Karen Martinez), forse perché sorridono allo stesso modo, e tendersi la ciotola d’acqua è stato spontaneo. Comunicano ognuno nella propria lingua, ma si capiscono e ridono con quel sorriso largo e indifeso che ne fa delle vittime predestinate.
Juan (Brandon López) li guarda geloso e ostile, questa rabbia lo salverà, dandogli la durezza necessaria per sopravvivere.
Ma è solo la rabbia del cucciolo che difende il suo osso.
Quando sarà necessaria una grande prova di umanità, da parte sua, non mancherà all’appuntamento.
Opera prima di Diego Queimada-Diez, regista con lunga esperienza come assistente al seguito di Ken Loach, Oliver Stone, Alejandro Gonzalez Inàrritu e Fernando Meirelles, La jaula de oro, reduce da Cannes 2013, sezione Un certain regard e premio Un certain talent, si sta muovendo a rilento nelle sale d’Italia. Meriterebbe invece il posto che si attribuisce ai capolavori.