Costituito da due capitoli, “accudisco gli angeli” e “scintille in una polveriera”, l’ultimo film di Philippe Garrel mantiene il contatto con quell’initimità estrema, che come ci era già capitato di scrivere, si fa vera e propria cicatrice interiore di cui possiamo scorgere la forma solo indagando i volti, i gesti dei personaggi, la prossimità quasi invisibile di Garrel ai loro corpi e il suo occhio che riesce a montare il silenzio come un’immagine; non solo per la coesistenza di questa con la durata e l’immediatezza del momento, ma anche attraverso piccoli inserti impercettibili, oggetti, immagini apparentemente disgiunte, frammenti di un discorso poetico; in la Jalousie, a memoria, è un giardino innevato, le pareti dell’appartamento di Louis Garrel, movimenti dell’anima che attraverso piccole azioni (la figlia di Louis che mangia con la madre, Anna Mouglalis che lava i piedi al vecchio scrittore) interrompono, internamente, il flusso e che oltre a dirci molto di quel particolare personaggio, ci consentono di entrare liberamente in una dimensione quasi indicibile.
Scritto insieme a Caroline Deruas, Arlette Langmann e Marc Cholodenko, Jealousy è stato realizzato, come ha detto lo stesso Garrel, su una “semplice tela” lavorando separatamente su alcuni segmenti e solo successivamente, cercando la narrazione durante le riprese, trovando l’unità con il lavoro della macchina da presa; un procedimento, che non è nuovo per Garrel ma che conferma la sua capacità di cogliere dalla frammentazione del reale, non importa se si tratta di un “reale” di scrittura pura, una continuità e una verità intima: “abbiamo cercato di realizzare ogni sequenza in un solo take”
Alla vigilia della conversione di tutte le sale con gli equipaggiamenti digitali che cancelleranno definitivamente la pellicola, Garrel gira in 35mm anamorfico, una scelta che non è “nostalgica” oppure peggio ancora “fuori tempo massimo” (casomai, oltre tempo), come ci è capitato di leggere, ma di un rigore che mette al centro lo sguardo; scorgere lo spazio fino ai limiti dell’inquadratura, e allo stesso tempo lavorare sulla sensibilità dell’immagine, avvicinandosi quindi a quello stato aurorale che la fotografia di Willy Currant sfiora con il tratto di un acquerello; quella vicinanza e quella distanza che gli consente di lavorare, da molti anni, sulla sua stessa biografia personale.
Nella sequenza in cui Louis, per esempio, alla fine del film, fa visita ad un uomo anziano, Garrel recupera un frammento della sua vita; la figura di un insegnante che ha significato molto per lui. Nella possibilità che Garrel ha avuto di studiare suo figlio Louis attraverso la sua evoluzione di attore c’è quella coesistenza con il passato dello stesso Philippe, nella relazione con il padre Maurice; ed inoltre, in quello che il regista francese chiama “l’aspetto documentaristico” di questo suo ultimo film, c’è una costante curvatura che rende compresenti vita e cinema; Esther Garrel è la sorella di Louis e “interpreta” la sorella di Louis, mentre dal punto di vista delle suggestioni, Anna Mouglalis, forse anche per la sua splendida voce e per il modo in cui Garrel la filma, tra dolore ed evanescenza, sembra portare dentro di se l’essenza di Nico.
In fondo, questa connessione indissolubile con molteplici tracce famigliari, Garrel la ricerca in uno scambio interno-esterno al suo cinema; ha raccontato come la scelta di Jean-Louis Aubert per la colonna sonora del film, che subentra al lungo sodalizio con John Cale, sia stata fatta anche per quello che aveva ispirato la pubblicazione di “Roc’éclair”, l’ultimo cd del songwriter Francese, dedicato alla morte del padre; poco dopo sarebbe morto anche quello di Garrel.
E La Jalousie? è una traccia impercettibile, non la si riconosce quasi mai attraverso la parola, la scorgiamo nei primi piani insistiti, nel volto della madre di Charlotte che cambia improvvisamente espressione; La Jalousie è un frammento del non detto.