martedì, Novembre 5, 2024

La isla minima di Alberto Rodriguez: la recensione

Paludi sul delta del Guadalquivir, 45 km a sud di Siviglia, 1980.
Delle tre isole la Minima è il paradiso di bracconieri e narcos, stormi gracchianti di uccelli bianchi svolazzano intorno a barche che rovesciano rifiuti ittici in acqua e trentamila ettari di campi di riso formano un gigantesco puzzle che, ripreso dall’alto, si dirama in una specie di mitico albero dai rami gonfi di vegetazione. Quando la macchina scende giù si sprofonda nell’acquitrino.
Il paesaggio è stato un elemento importantissimo del progetto sin dall’inizio – dice il regista, Alberto Rodríguez – E’ un luogo strano perché, nonostante sia completamente cristallino, è un labirinto: andare da un luogo all’altro è complicatissimo, con strade impraticabili e sentieri che possono sprofondare da un momento all’altro…”

Questo labirinto di pochi abitanti, che non è più terra ma non è ancora mare, è il vero protagonista della storia. Quaranta anni dopo gli insediamenti dei coloni, necessari all’economia franchista, quei luoghi sono uno spaccato della devastazione fatta di miseria, crollo sociale e degrado morale a cui il regime consegnò il Paese.
In questa enclave dove l’etica è collassata, i giovani sognano di andar via e nei pub scorrono fiumi di alcol, la convivenza è malsana come l’aria che arriva dalla palude. Le inquadrature spezzate, i filtri che rendono le atmosfere melmose e lo script gravido più di non detto che di parole, spostano la rappresentazione in una prospettiva marcatamente politica, dove il thriller diventa pretesto per uno sguardo sulla fisionomia ambigua, sgusciante e torbida di una società in transizione dalla dittatura alla democrazia.
E’ il decennio anni’80, quello in cui fu chiaro che i mali del Paese perduravano e proiettavano ombre lunghe sul suo futuro.
Rodríguez, al quarto lungometraggio, 10 premi Goya e accoglienza trionfale al festival di San Sebastian, si conferma regista maturo e attento alle sottili ramificazioni del male, che non è solo quello incarnato dal serial killer che stupra e squarta giovani adolescenti.
E’ il male che serpeggia in un tessuto sociale sofferente, cresciuto nel silenzio complice, nella collusione fra poteri forti, nella paura che, dopo, diventa licenza, arbitrio, illegalità diffusa, mali che prosperano quando la crescita democratica è stata soffocata per troppo tempo.

E’ la fine dell’estate del 1980, due giovani sorelle sono scomparse durante una festa di paese e due investigatori, Pedro (Raúl Arévalo) e Juan (Javier Gutiérrez) arrivano da Madrid per le indagini.
Sono molto diversi. Il primo, più giovane e taciturno, è figlio dei tempi nuovi, l’altro è stato un attivista della cosiddetta Gestapo franchista, ha modi sbrigativi e molto da farsi perdonare. Tra i due non si stabilirà nulla che non sia un rapporto di lavoro e chi prende ogni volta le distanze è proprio il più giovane.
Delle ragazze scomparse si dice che sono facili, si ammicca più che dire, il repertorio del “machismo” più bieco si fermerà solo davanti ai cadaveri nudi, orribilmente seviziati. Di altre sparizioni si saprà durante le indagini, sembra che sulle cose sia steso un velo che fatica ad alzarsi e ogni scoperta è un gradino più giù nel pozzo dell’orrore.
Negativi fotografici sbruciacchiati con scene di sesso finiscono nelle mani dei due detective e aprono la strada verso scenari di abuso, violenza e prostituzione. Il miraggio di un lavoro in città è ogni volta agitato davanti agli occhi di ragazze troppo ingenue e troppo amareggiate dalla loro vita reclusa, e il giovane ruffiano sa come ottenere quel che vuole per portarle nel casolare isolato di cui gli anziani clienti conoscono bene la strada.
Purtroppo fra questi spunta il serial killer, e il traffico s’interrompe.
L’impressione costante è di minaccia che alita ovunque e si concentra negli sguardi, in un parlare ambiguo che confina con l’omertà e segna uno strano procedere delle indagini, quasi che alla comunità importi poco che si arrivi ad un colpevole.
Nello spazio angusto delle scene d’interno, dove ambienti logori fanno da cornice a vite famigliari prive di collante, l’estraneità reciproca è il denominatore comune.
Al Procuratore capo interessa solo che l’inchiesta non disturbi il prossimo raccolto, sul profitto si gioca la stabilità politica e qualche ragazzetta facile che scompare non fermerà l’economia; alla Guardia Civil interessa che nessuno ficchi il naso nei suoi rapporti con i narcos, mentre le famiglie delle ragazze scomparse sembrano più tese a nascondere torbidi segreti che a ritrovare le figlie.
E così l’inchiesta procede lenta, ristagnando in atmosfere pesanti, animate solo nelle scene d’azione, quando Rodríguez fa muovere i suoi personaggi in uno scenario palustre nebuloso e sconcertante, dove le cose sembrano risucchiate in vortici di vuoto e il ritmo diventa elettrizzante.
Il commento musicale di Julio de la Rosa imprime al crime movie una cadenza lenta e lontana, realtà e mistero convivono e il confine con il delirio onirico è lì a due passi, pronto per essere superato.
Mondo afflitto da tare antiche e timoroso del nuovo, teme la libertà e vive con i suoi fantasmi.
La moglie di Pedro è incinta, solo al telefono con lei l’uomo si scioglie, l’arrivo di un figlio segnerà l’inizio di tempi nuovi.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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