Thomas (Anthony Bajon) guarda fuori dal finestrino di un’auto in corsa, osserva il paesaggio valligiano, si volta verso il conducente. Ha il volto ferito, il suo sguardo tradisce un’insicurezza mista a indolenza. Il giovane è un eroinomane reduce da un’overdose; sta per iniziare una cura di disintossicazione presso una comunità cattolica di recupero per tossicodipendenti, situata tra le alpi francesi. La valle si stringe, il paesaggio cambia: la strada s’inerpica su per una zona montuosa. La macchina raggiunge, infine, una cascina e lì, dove il viaggio termina, inizia il percorso di recupero del giovane ventenne.
Quella a cui Thomas si sottoporrà, è una terapia a freddo, gli spiega Marco (Alex Brendemühl). “Abbiamo regole severe”, chiarisce l’uomo di mezza età, ex alcolista e direttore del gruppo maschile della comunità: il giovane dovrà depositare vestiti e oggetti personali, non potrà avere contatti col mondo esterno, indosserà abiti forniti dalla comunità, non gli sarà mai consentito di essere da solo, neanche per un solo minuto.
Unico sostegno nel corso della terapia saranno la preghiera, il duro lavoro nei campi e Pierre (Damien Chapelle), un altro ricoverato, ex-eroinomane, che fungerà da suo “angelo custode” standogli sempre accanto, non lasciandolo mai solo. Thomas non pronuncia una sola parola, sembra che quanto sta succedendo non lo riguardi. La vicenda prende così il suo corso, per concludersi in un finale che resterà irrisolto.
E così, insieme a film quali “Des hommes et des dieux” (2010) di Xavier Beauvois e “Les innocentes” (2015) di Anne Fontaine, con Cédric Kahn il cinema francese torna a occuparsi ancora una volta di religione e forme di religiosità, interrogandosi sulla preghiera intesa come forma di terapia nella società consumistica odierna.
Evidenti sono i richiami alle teorie di Pierre Hadot (1922-2010) e, in parte, dell’ultimo Foucault (1926-1984). Rispettivamente in Exercices spirituels et philosophie antique (1981) e L’Herméneutique du sujet (1981-1982), i due filosofi francesi avevano investigato le tecniche di costruzione del sé nella filosofia antica, soffermandosi, tra l’atro, sul ruolo assunto dagli esercizi spirituali in tali processi socio-psicologici.
In particolare, per Hodot, la preghiera darebbe accesso a un’esperienza di “trascendenza della centratura egoica nella ricerca della verità, trascendenza nel rapporto con il cosmo, trascendenza nel rapporto con gli altri. […] Ogni esercizio spirituale è fondamentalmente un ritorno dell’Io a se stesso, che lo libera dall’alienazione dove lo avevano trascinato le preoccupazioni, le passioni, i desideri. L’io così liberato non è più la nostra individualità egoista e passionale, è la nostra persona morale, aperta all’universalità e all’oggettività, partecipe della natura e del pensiero universali.” ( Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique).
Il regista Cédric Kahn accompagna Thomas in questo percorso di souci de soi (cura del sé, cfr. Foucault, L’Herméneutique du sujet). Lo fa senza giudicare. Kahn, anche coautore del copione, non demistifica la preghiera, né tantomeno vuole proporla come efficace strumento di cura di forme di qualsivoglia dipendenza. Come il finale della storia, così anche le domande che costituiscono il nucleo tematico e la ragione d’essere del film restano aperte. Ogni risposta o presa di posizione a riguardo è lasciata allo spettatore. In ciò sta la bellezza di questo film.