Michael Cuesta, autore tra televisione e cinema, nei suoi lungometraggi ha sempre indagato le relazioni famigliari messe a dura prova da contesti difficili o da improvvisi cambiamenti di prospettiva. Con Kill the messenger innesta nello stesso ambito alcuni elementi del cinema americano di inchiesta che già negli anni settanta affrontava la crisi di valori di un’intera nazione attraverso la mutazione traumatica dello spazio individuale.
Ma della spirale paranoide che possiede i personaggi dei film di Coppola, Pakula, Penn, Schlesinger rimane un’ombra nel film di Cuesta. Più interessato al personaggio principale e alla relazione con il nucleo famigliare, lascia fuori campo tutta la progressione delle indagini sostituendola con immagini di repertorio, frasi ad effetto ed elementi documentali spinti in una posizione accessoria.
Gary Webb (Jeremy Renner) è un giornalista scomparso nel 2004 per presunto suicidio. Dagli anni ’90 aveva affrontato un filone d’inchiesta legato alle connessioni tra i contras nicaraguensi, il traffico che introduceva cocaina negli Stati Uniti e il coinvolgimento della CIA disposta a chiudere un occhio sugli illeciti per finanziare la guerra anti-comunista. Una patata bollente che l’editorialista del San Jose Mercury News affronta di petto intervistando trafficanti, cercando connessioni difficili e recandosi in Nicaragua ad ascoltare alcuni attori della vicenda. “Plot” intricatissimo che Cuesta semplifica sin da subito con una serie di elementi di disturbo al limite con la parodia, basta pensare all’innesco della vicenda, con la moglie di un trafficante (Paz Vega) che consegna al giornalista alcuni documenti scottanti legati ad apparati governativi, per poi incastrarlo dopo aver ottenuto quello che le serve. Cuesta risolve l’incontro tingendolo di rosa e spostando subito dopo l’attenzione sul menage matrimoniale, con la moglie Sue (Rosemarie DeWitt) preoccupata che l’instabile marito ceda nuovamente alle lusinghe dell’adulterio.
E la coesione del nucleo sembra condividere lo stesso spazio con la fedeltà ai propri principi; più che dal clima persecutorio Webb sembra posseduto da quel dubbio che lo costringe a soppesare un’ossessione con la stabilità degli affetti. In questo senso il regista americano depotenzia volontariamente qualsiasi tensione eroica elaborando una mitologia intima che ignora gli elementi del complotto. Tutta la sequenza della cerimonia per il premio come migliore giornalista dell’anno è una dolente confessione solitaria, con la famiglia che gli si stringe intorno e lo guarda uscire di scena mentre una scala mobile lo trascina via.
Ma se Kill the messenger evita i rischi della retorica democratica scegliendo di penetrare le conseguenze intime di un intrico politico troppo grande oppure “troppo vero per essere raccontato“, non riesce a tradurre questa vicinanza al personaggio di Webb nella rappresentazione di quella spirale oscura dove il giornalista precipita dopo la pubblicazione degli articoli intitolati “Dark Alliance“.
Tutti gli aspetti politici ma anche causali che costituiscono lo sviluppo documentale della vicenda vengono completamente ignorati e non perché Cuesta scelga di lavorare per sottrazione puntando, per esempio, sulla presenza di una tensione invisibile generata dal contrasto tra conoscenza e improvvisa perdita della messa a fuoco sugli eventi, ma per un’incapacità manifesta a controllare tutto il materiale a disposizione. Quello che ha la meglio è un didascalismo davvero piatto, con il solito found footage a fare da sutura estetica, senza che tra immagine e parola ci sia una relazione anche contrastante, ma viva.
Un’occasione mancata quella di Kill the messenger, perché al netto della buona volontà di Cuesta nel dimostrare interesse ed impegno civile, non basta evitare la retorica più esplicita se il risultato deve esser quello di una distanza siderale da un cinema che del corpo-a-corpo e della paranoia ha fatto l’elemento principe e imperfetto di indagine del reale.