Un bel saluto al cinema e alla vita quello firmato da Carlo Mazzacurati poco prima della sua morte. “La sedia della felicità” arriva in sala come opera postuma del regista veneto, che nel corso della sua carriera ha raccontato con profondità di sguardo le diverse sfumature dell’animo umano, lavorando sui personaggi e sul paesaggio come narrazione. Nella sua ultima pellicola è il nord-est a fare da sfondo, ma senza caratterizzare la vicenda in modo netto, a partire da due protagonisti, chiaramente non autoctoni: un tatuatore e un’estetista squattrinati, cui si aggiungono nell’incipit un prete e una criminale chic. Quest’ultima in punto di morte rivela in carcere un preziosissimo segreto che metterà in subbuglio le vite di tutti.
Parte così la caccia al tesoro nascosto in una sedia che occuperà i personaggi per tutta la durata del film. Un percorso pieno di ostacoli, nel corso del quale si mette a nudo la precarietà materiale ed esistenziale che circonda i protagonisti, alle prese con un’umanità varia e colorita.
Nessuno sembra disposto a dare niente per niente, l’avidità e il sospetto regnano sovrani e per raggiungere l’obiettivo bisogna farsi furbi, arrivare per primi e dimostrarsi scaltri. I toni grotteschi avrebbero reso poco credibile e difficilmente sopportabile il film se non fosse per la grande sintonia col registro comico dimostrata dagli interpreti. Valerio Mastandrea, Isabella Ragonese e Giuseppe Battiston dialogano con l’assurdo della vita con un’espressività in grado di riempire la sceneggiatura di credibilità e poesia.
“La sedia della felicità” costringe a muoversi, a uscire dal proprio piccolo dramma personale per mettersi in viaggio e sperare che qualcosa finalmente possa cambiare, anche se la soluzione non si trova subito a portata di mano basta non arrendersi e credere che, una tappa dopo l’altra, la meta sarà quella sognata. L’approdo finale dei tre piccoli e strampalati eroi è una montagna immensa e piena di pericoli, dove si consuma l’ultimo atto della storia in un’atmosfera tra l’ilare e l’inquietante, nuova e fresca rispetto ai clichè narrativi del cinema italiano, con un doppio lieto fine.
Piacevole e divertito è lo sguardo consegnato da Mazzacurati al suo pubblico: la debolezza del vivere di oggi, appesantita da cattiveria e derive sentimentali e professionali, sembra destinata a naufragare verso la sconfitta se non si affronta la fatica insieme, se non si accettano le sfide per un futuro migliore nonostante le premesse negative. Una leggerezza ottimistica che filtra da inquadrature intimamente legate al carattere dei personaggi e ai luoghi attraversati, “incrociando” più o meno velocemente una serie di volti noti e cari al regista – tra gli altri Antonio Albanese, Silvio Orlando, Fabrizio Bentivoglio e Roberto Citran – corollario affettivo sul set di addio.