In tanti, ultimamente, sembrano avere il vizio di scomodare l’antica Grecia per legittimare il proprio senso d’appartenenza a un modello intellettuale. Nel mondo dell’editoria, molti sono stati i titoli dedicati di recente all’importanza dello studio dei classici o all’attualità di quella civiltà, antropologicamente così lontana, nella nostra società post-post moderna e, di fatto, irriducibile a definizione.
Verrebbe da chiedersi se questo oltranzismo militante nel sostenere la causa degli antichi non sia una forma di elusione del presente, di una contemporaneità che si preferisce liquidare come fenomeno culturalmente deteriore baloccandosi – nell’attesa d’ispirazioni più coraggiose – nella contemplazione di un passato di cui, con urgenza, si rivendicano vitalità e valore.
Un film italiano, tra le sei opere selezionate quest’anno per la ventesima edizione del N.I.C.E. Film Festival di Mosca e San Pietroburgo, rientra in questa ossessiva devozione all’antica Grecia: La sindrome di Antonio, lungometraggio del 2015 diretto da Claudio Rossi Massimi, che è pure l’autore del libro omonimo da cui è tratto.
Il protagonista, Antonio (Biagio Iacovelli), è un ragazzo che, alla fine dell’estate di maturità (classica, naturalmente), nel settembre del 1970, decide di partire da solo per Atene sulla Cinquecento della madre, un po’ per idealismo sessantottino (ha una particolare teoria su Che Guevara), un po’ per fanatismo metafisico (l’idea è quella di andare sul luogo in cui è Platone ha concepito il suo mito della caverna).
Ne viene fuori un on the road al confine con il coming of age: Antonio, sulla strada, scopre l’amore e se stesso e nulla sarà più come prima. Gli anni in cui la vicenda è ambientata sono quelli della dittatura dei Colonnelli, ma la rappresentazione della Grecia che il film consegna allo spettatore è da spot turistico sospeso in un’età dell’oro storicamente archiviata da un paio di millenni, ma eternamente viva nella nostra comune ansia di mitizzazione.
È il prezzo pagato dallo stato ellenico al suo eccesso di civiltà quello di continuare ad essere identificato con le sue remote glorie e, del resto, la sua lotta per uccidere il padre non sembra essere ancora finita.
La cinematografia greca è, però, oggi, una tra le più avanzate d’Europa per estetica e concetto: basti pensare al cerebralismo stilisticamente sontuoso della riflessione di Yorgos Lanthimos su totalitarismo e repressione o, una generazione prima, all’intersezione tra scrutinio intimista e ricerca dei moventi storici nella produzione di Pantelis Voulgaris.
Il nostalgismo di uno sguardo così scolastico sul paese è, infatti, solo ed esclusivamente esterno e ci dice più della società che osserva che di quella osservata: la «sindrome» del film non è, infatti, solo quella del titolo, ma anche il suo passatismo sintomatico di un soffocamento tutto italiano, il piglio verboso (mai reciso il cordone ombelicale con la fonte narrativa) e l’errore di collocazione: il grande, invece che il piccolo schermo.
Quel che vorrebbe raccontarci è l’entusiasmo di un giovane uomo affamato di vita e idealità in viaggio nella sua patria d’elezione; quel che ci racconta è la stanchezza dei linguaggi, la modestia di scrittura e messinscena, la rigidità del passo, l’oppressione della nostalgia.
La sindrome di Antonio resterà comunque memorabile almeno per una ragione: è l’opera con cui l’immenso Giorgio Albertazzi, nel ruolo del pittore ammutolito Klingsor, si è congedato per sempre dal cinema.