“La storia della Principessa Splendente” porta avanti la sperimentazione di Isao Takahata e del suo staff di animatori da dove l’avevamo lasciata. Se l’essenzialità del tratto è in parte quella di “Hôhokekyo tonari no Yamada-kun“, il rapporto con la tradizione degli emakimono, le opere narrative disegnate su rotolo a partire dall’XI secolo, diventa più evidente per il modo in cui lo schizzo e la presenza materiale del pennello passa dalla modernità delle strisce di Hisaichi Ishii alle origini del racconto sequenziale, mantenendo come punto di contatto un rigoroso realismo, inteso come progressiva sottrazione degli elementi grafici, a favore di un minimalismo in grado di restituire l’asciuttezza della verità, in un contesto legato alla fiaba popolare.
Un crocevia complesso che attraversa quasi tutta la filmografia dell’autore giapponese, sospesa tra realismo documentale e trasfigurazione visionaria, che nel cinema di Takahata non viene mai meno. Basta pensare al modo in cui i personaggi di Pompoko vengono sottoposti alle possibilità della mutazione metamorfica e allo stesso tempo sono descritti a partire dalle loro caratteristiche più umane con uno sguardo complessivamente antropologico.
La “Storia di un tagliabambù” (Taketori Monogatari), antica fiaba giapponese del nono secolo da cui il film ha origine, viene adattata per la prima volta nel 1975 proprio in forma animata per la serie televisiva nota come “Manga Nihon Mukashi Banashi“, dedicata agli antichi racconti popolari giapponesi e trasmessa in Italia dalla RAI solo parzialmente nel 1978 con il titolo di “Fiabe e leggende giapponesi“. Il segmento dedicato alla principessa Kaguya dura dieci minuti ed è diretto da Takao Kodama, con le animazioni di Masakazu Higuchi e i disegni di Koji Abe è una trasposizione fedele al racconto e se si escludono alcuni riferimenti indiretti, è l’unica insieme al film di Kon Ichikawa dell’87, ad essere realizzata prima dell’opera di Takahata.
Mentre il film di Ichikawa rimane sospeso tra una ricostruzione onesta del mondo feudale e gli ultimi venti minuti in puro stile science fiction con la chiusa pop di Peter Cetera, il chitarrista dei Chicago, l’animazione di Kodama rimane entro i confini della fedeltà didascalica, in linea con la destinazione del progetto “Manga Nihon…”.
Il lavoro di Takahata è quindi quello più originale, proprio per il modo in cui legge la tradizione, a partire dalla rigorosa ricerca grafica, per reinterpretarla alla luce di una poetica personale. Lo stesso racconto subisce numerosi slittamenti di senso, prima di tutto per il tentativo che Takahata compie nel costruire una coerenza interna alla narrazione come se la relazione tra i due mondi (la terra e la luna) fosse attraversata da una traccia speculare che muta dal sogno alla realtà in entrambe le direzioni, ma anche per i continui riferimenti alla storia culturale del Giappone, descrivendo il percorso della principessa Kaguya come quello di una donna del cinema di Mizoguchi, dilaniata tra desiderio di essere e l’apparenza del contesto sociale.
Ma sono solamente alcuni elementi del film, perché al realismo documentale, che Takahata affronta da sempre con forte attenzione ai piccoli dettagli, in questo caso evidenziati dal contrasto tra la rappresentazione della natura e la costruzione di un mondo teatrale legato agli elementi della tradizione, si sovrappone uno sguardo espressionista, già introdotto in forma più esplicita da “Hôhokekyo tonari no Yamada-kun”, ma presente in modo sottile in molte opere del regista giapponese, anche quelle più insospettabili come Panda Kopanda.
È la forte aderenza alla mutevolezza dei sentimenti che consente a Takahata di sperimentare tecniche apparentemente in contrasto tra di loro per dare corpo ad una libera interpretazione della forma.
In questo senso “La storia della principessa splendente” erompe improvvisamente dalla bi-dimensionalità del quadro, e così come la giovane principessa che srotola un emakimono per dispetto oppure disegna la natura ispirata dalla visione e dall’intuito invece di applicarsi allo studio della calligrafia, il tratto di Takahata esonda seguendo il tracciato libero e impazzito del pennello in alcune sequenze di fuga che hanno l’incredibile capacità metamorfica e coalescente di espandere la struttura modale del disegno in una dimensione percettiva multidimensionale.
La tradizione allora non è solamente una, a meno che non si voglia confinare il lavoro di Takahata nella gabbia dei riferimenti filologici, ma dialoga a distanza con numerose stagioni del disegno animato, non solo giapponese, pur rimanendo ancorata ad una dimensione artigianale che privilegia la cancellazione e la sottrazione invece dell’accumulo.
Ma quello che colpisce maggiormente, al di là della traduzione critica dei numerosi stimoli, quasi sempre un lavoro a ritroso alla ricerca di una o più origini, è la capacità di Takahata nel biforcare gli elementi della tradizione, inclusa quella cultuale.
L’esperienza della circolarità della vita non sembra limitarsi alla relazione difficile con la morte, nè si orienta esclusivamente verso quell’animismo che è presente nella filmografia di Hayao Miyazaki.
Quando sovrappone la provenienza della principessa con alcuni riferimenti alla tradizione Buddhista, nella rappresentazione della “terra pura” tipica per esempio dell’Amidismo, indirizza solo in parte la riflessione verso l’ontologia Buddhista che descrive la vacuità mondana come causa di quel falso attaccamento alle cose, origine stessa del senso di perdita e del dolore, perché la principessa sembra voler rimanere a metà tra il disvelamento dell’inganno allestito dalla società e un rifiuto quasi “blasfemo” della negazione del sé individuale.
La perdita della memoria, storica e privata, così importante per il Takahata di “Only Yesterday” ma anche per quello che raccontava la storia dei canali di Yanagawa, è ancora una volta al centro, non solo come segno della condizione drammatica dell’uomo, ma come volontà di mantenere lo sguardo rivolto verso la terra.