venerdì, Novembre 22, 2024

La Teoria del Tutto di James Marsh: la recensione

Ne La Teoria del Tutto (The Theory of Everything), il biopic di James Marsh dedicato a Stephen Hawking, c’è qualcosa di immediatamente fuorviante. Ed è il titolo. La Teoria del Tutto è il suggestivo appellativo con cui i fisici teorici identificano un’ipotetica teoria capace di spiegare tutti i fenomeni conosciuti con un’unica, formidabile, equazione. In molti ci hanno provato, ma nessuna ipotesi è stata verificata sperimentalmente. La Teoria del Tutto resta un’utopia. In altri termini, riunire meccanica quantistica e relatività generale in un unico paradigma teorico è ancora nella To do List dei fisici di domani. Eppure, il film di Marsh – regista che evidentemente ama le sfide (da Man on Wire, sul funambolo Philippe Petit, a Project Nim, dedicato a un controverso esperimento della Columbia University sulle capacità linguistiche e cognitive di uno scimpanzé) – parla di tutt’altro. Vorrebbe parlare di due individui che, pur essendo, fin dal principio – per Jane la Teoria del Tutto richiede Dio come garante, per Stephen non è necessario –, radicalmente diversi, diventano il Tutto l’uno per l’altro. Al centro del film c’è infatti la storia d’amore, e il lungo matrimonio, fra Hawking (Eddie Redmayne) la prima moglie, Jane Wilde (Felicity Jones), studentessa di letteratura conosciuta a Cambridge durante gli anni del dottorato in fisica e poi sposata. Per oltre venticinque anni, Jane supporta il marito, il cosmologo del tempo e dei buchi neri, attraverso il calvario fisico e psicologico prodotto dalla sclerosi laterale amiotrofica, la malattia neurodegenerativa che accompagna Hawking – oggi ultrasettantenne, in barba alla diagnosi iniziale che gli concedeva appena due anni di vita – fin dai primi anni ‘60. Dopo tre figli e un infinito amore, negli anni ’90, Jane e Stephen Hawking si separano. Stephen sposerà poi una delle sue infermiere (Emily Watson), mentre Jane si rifarà una vita con Jonathan Jones, maestro di musica vedovo che la ama in (quasi) silenzio da anni.

Basato sull’autobiografia di Jane Wilde (Travelling to Infinity – My Life with Stephen), La Teoria del Tutto ricostruisce il côté privato e domestico dell’esistenza del cosmologo di Cambridge, sfrondando e progressivamente relegando sullo sfondo gli aspetti professionali. Una volta superata la sorpresa per l’impostazione di fondo, si passa a chiedersi se non ci fossero prospettive più interessanti. Prima del film per la tv Hawking (2004), dedicato agli anni giovanili dell’astrofisico, persino il documentario intitolato A Brief History of Time (1991) – ispirato all’omonimo bestseller – era in realtà un documentario sulla sua vita privata. La scelta del taglio resta comunque insindacabile. Il problema è che la messinscena della vita del fisico si riduce spesso a un pretesto per raccontare una storia romantica attraversata da un’idea – significativa e potente, certo – costantemente riproposta. È in questa nemmeno troppo velata tendenza che si annidano i limiti del film.

Nella prima parte, la più interessante e vitale, lo sguardo è quello di Hawking, dottorando promettente e svagato, che si innamora della fisica teorica e della cosmologia, conosce una bella ragazza e scopre per caso, dopo una caduta, di essere affetto da una malattia che finirà per privarlo dell’uso della parola, ma lascerà intatto lo spirito e il cervello. Fresco di Golden Globe, Eddie Redmayne – perfetta l’alchimia con Felicity Jones – si cala nella propria parte con perfezione meticolosa e struggente, ricalcando la fisicità sempre più compromessa di Hawking attraverso i vari stadi della malattia. Qui Marsh pesca a piene mani dall’universo di pellicole ambientate in college/campus inglesi, restituendo un quadro credibile e vagamente stereotipato degli anni giovanili di Hawking, fatto rientrare nel prototipo del giovanotto-un-po’-strano-ma-geniale che incanta l’apparentemente tradizionale Jane. Un po’ di polvere britannica, atmosfere ovattate, luci soffuse e discorsi su scienza e teologia. Fin qui, nulla di così disturbante.
Tuttavia, con la progressione del morbo e la conseguente immobilità di Hawking, costretto su una sedia rotelle, il testimone passa a Jane, divisa fra la fedeltà al marito (l’ateo Stephen) e un nuovo amore (il fedele Jonathan). E qui i toni variano dal genuinamente commuovente al sentimentale, con una certa tendenza (cattivo gusto?) a rendere simbolicamente pregnanti alcuni istanti della vita di Hawking. Sarà forse un caso se la casa di produzione, la Working Title, di solito predilige commedie romantiche – negli anni passati, ha sfornato successi come Quattro matrimoni e un funerale, Notting Hill o Love Actually – L’amore davvero. Per riuscire nell’operazione, Marsh si concede qualche libertà nel mettere in scena il testo di Jane Wilde, reinventando o ammorbidendo dialoghi – le insinuazioni dei genitori di Stephen sulla paternità di uno dei figli di Jane; l’apparentemente pacifica separazione tra i coniugi nei primi anni ’90 – e caratteri (con un Hawking sempre simpatico, gentile e accomodante). Poco importerebbe, forse, la scarsa fedeltà ai dettagli, se il tutto non fosse congegnato per solleticare le corde più basilari dell’empatia, perfino modificando la successione temporale di alcuni avvenimenti per suggerire allo spettatore legami e affinità elettive. Un esempio su tutti: il momento in cui Jane, discretamente, decide di concedersi a Jonathan è fatto coincidere con quello in cui Stephen, a Bordeaux per un concerto, è vittima del malore (in realtà una polmonite) che lo lascerà in fin di vita.

Il risultato è che si fatica a vedere il fisico oltre il malato non perché non si parli quasi mai di fisica – anche se il livello resta sorprendentemente divulgativo perfino nelle lezioni del dottorato, mentre gli aspetti più mistici sono relegati a scarabocchi su una lavagna destinati agli iniziati. Piuttosto la pellicola è troppo impegnata a rilanciare costantemente il proprio messaggio – la capacità di un uomo straordinario e geniale, supportato da una grande donna, di vincere ogni sfida –, e per di più sente il bisogno di renderlo accattivante attraverso una dose generosa di buoni sentimenti e di innocua ironia (la passione di Hawking per la rivista Penthouse, maliziosamente “scoperta” dall’infermiera/futura moglie; l’accento americano del sintetizzatore vocale) che ne affondano il ritmo complessivo.

Sofia Bonicalzi
Sofia Bonicalzi
Sofia Bonicalzi è nata a Milano nel 1987. Laureatasi in filosofia nel 2009 è da sempre grande appassionata di cinema e di letteratura. Dal 2010, in seguito alla partecipazione a workshop e seminari, collabora con alcune testate on line.

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