Miriam e Antoine ottengono l’affido congiunto di Julien dopo un sofferto divorzio, ma il figlio undicenne è deciso a rimanere con la madre. Il ragazzo si trova più volte ad esser ricattato da un padre geloso e potenzialmente violento; cerca con tutte le sue forze di far da scudo ad una madre costantemente “pedinata”. A niente vale il tentativo di Julien di attivare una protezione nei confronti della violenza, psicologica e fisica, che colpisce inesorabilmente Miriam. Antoine è ossessionato e la sua ossessione può trasformarsi in furia.
Ne “La Rupture”, uno dei film più belli e trascurati di Claude Chabrol, l’immagine della violenza domestica irrompe sullo schermo senza alcuna mediazione. Il corpo del piccolo Michel viene scagliato dal padre contro una parete, di fronte all’impotenza della madre, è l’inizio di un incubo che come in tutto il cinema del grande cineasta francese, indaga la sconnessione tra aurale e visivo approdando ad una dimensione eminentemente psichica.
L’esordio di Xavier Legrand sembra un’intelligente revisione di quel film, non solo per l’attenta fenomenologia impiegata per raccontare la dissoluzione di una coppia nella spirale della violenza, ma anche per la costante messa in abisso della tensione narrativa con le dinamiche dello sguardo e del racconto di genere. Legrand stesso cita Shining, The Night of The Hunter di Charles Laughton e Kramer Vs. Kramer di Robert Benton come ispirazioni impiegate e allo stesso tempo veicoli da sfruttare per qualcos’altro, noi abbiamo invece pensato a Chabrol per l’attenzione ellittica e disgiuntiva ai suoni ambientali. Senza alcuna musica di supporto, Jusqu’a la garde indugia sul ticchettio di un orologio, sull’ossessiva ripetizione di un campanello filtrato dal citofono, sull’amplificazione dei rumori quotidiani come diretta conseguenza di uno sguardo alterato.
La tensione viene costruita da Legrand secondo un processo di osservazione soggettiva del reale, spezzandone a poco a poco gli stessi legami costitutivi e ricombinandoli nel confronto infernale della psiche con il proprio rumore interiore.
L’intrusività persecutoria di Antoine (Denis Ménochet) diventa tattile attraverso il suono; Legrand non si limita ai fatti e al racconto frequentativo dello stalking, ma ci trasforma in stalker rendendo indistinguibile la visione da ciò che sentiamo. L’occhio diventa la cosa stessa, pugno o fucilata che sia, mentre le continue fughe di Miriam (Lea Drucker) e del figlio Julien (Thomas Gioria) sono un tentativo di chiudere gli occhi, di tapparsi le orecchie, di tagliare i ponti con quella continua “rottura”, la cui qualità orrorifica diventa tutt’uno con il rumore.
Sono straordinariamente terribili le sequenze in cui il pedinamento di Antoine arriva a combaciare con i depistaggi di Julien, in quella lotta per la sopravvivenza che condivide qualità tensive e intime davvero potenti all’interno di uno stesso spazio; la distruzione di un patto di fiducia durante un percorso di avvicinamento al simbolo di protezione famigliare per eccellenza, la casa.
Sono gli ambienti dell’aggregazione famigliare che interessano a Legrand, non solo le case con i loro rituali di scambio quotidiano, ma la festa come luogo di energie affettive dove sentirsi integrati o al contrario, pericolosamente fuori posto. La follia di Antoine, invece di esser sottoposta al giudizio che viene assegnato ai “mostri”, viene osservata con quello sguardo dolente che incontra il volto della propria follia.
Jusqu’a la garde ha una solidità d’impianto sorprendente e allo stesso tempo contiene molti film all’interno, senza che lo slittamento di senso e l’applicazione di più registri della tensione si mangino tutto con un eclettismo fine a se stesso. Legrand guarda al cinema come esperienza di cineasti molto diversi tra di loro ma con alcuni elementi in comune come Chabrol, Jean Becker, Tavernier, Depardon, Claire Denis, ma affrontando una strada già personale, nella rilettura e desertificazione del cinema di genere.