Sessualità e desiderio al centro della selezione di corti in concorso del 28 luglio alla dodicesima edizione del Lago film Fest. In Crazy House del canadese Aaron Mirkin la scomparsa di un giovane ragazzo morto suicida costringe il suo migliore amico ad un processo identitario doloroso. Il confronto con la propria omosessualità rivela la paura d’amare liberamente, che Mirkin affronta con i segni di una ghost story visionaria. Gli oggetti materiali come tracce del passato vengono trasfigurati in un grottesco flusso di coscienza con più di un punto di contatto con le arti performative invece che con il cinema di genere, fino alla danza dei corpi conclusiva sulle note di Running up that hill di Kate Bush. La pornografia ai tempi della società connettiva è ormai un dato acquisito soggetto ad infiniti segmenti specializzati, mentre il belga Cristopher Radcliff insieme alla collega Lauren Wolkstein cercano di affrontarla con quell’impronta sociologica cara a certe pubblicazioni degli anni settanta, utilizzando l’animazione come linguaggio e citando a questo proposito proprio il cinema di quegli anni fino ad alcuni riferimenti espliciti alla scuola di Zagabria e alla pop art. Pornography punta sopratutto ad una lettura ironica della fruizione pornografica cercando di rilevare quali sedimentazioni siano rimaste nella società odierna, completamente assuefatta a quell’immaginario. Mentre le attrici di settore sembrano far parte di un mondo ormai scomparso dove la professionalità e le attitudini performative erano al centro, emerge nuovamente la paura nei confronti del sesso in una società dello spettacolo completamente assorbita dal inguaggio delle soap opera e dalla violenza. Sangue e lacrime vengono comunemente accettati, mentre lo sperma è il più negletto tra i liquidi corporei. Ponography allora diventa un mix tra gioco verbale (l’esilarante intermezzo sul cunilinguus) e fantasia visiva, grazie alla libertà mutaforma dell’animazione. Il Georgiano George Sikharulidze si riferisce ai maestri della commedia del suo paese d’origine, tra tutti il dimenticato Eldar Shengelaia sopratutto per quanto riguarda il taglio delle inquadrature e la vicinanza ai corpi dei personaggi, quotidiani e mostruosi allo stesso tempo. In The Fish that drowned Sandro entra nuovamente in contatto con l’amore della sua vita, Tina, morta durante una manifestazione per una sassata in testa. Sikharulidze costruisce un piccolo film necrofilo, leggendo le dinamiche del desiderio come un costante girare a vuoto. I dettagli sul cadavere, la famiglia che prende le misure per la bara, le memorie che si riducono ad annoiate sessioni di sesso solitario con il cesso incrostato che accoglie lo sperma di Sandro. Questa paura del vuoto come crocevia tra l’ansia di prestazione e il desiderio, sul confine tra vita e morte, orgasmo e rinuncia è al centro del bizzarro Hopptornet degli svedesi Axel Danielson e Maximilien Van Aertryck dove il terzo livello di un trampolino posto a dieci metri di altezza di una grande piscina diventa uno studio sui corpi e sul superamento dei propri limiti. Il sesso è presente in forma implicita e la coppia di registi isola i partecipanti in vetta, per registrare il loro rapporto con il vuoto, aspetto che visivamente rimane quasi sempre fuori campo e che viene risolto come in una video installazione, per l’attenzione peculiare ai motivi geometrici, ai colori e all’inquadratura come occhio puntato su una realtà fortemente regolata da precise simmetrie. Una messa in scena volutamente asfittica spezzata dalla relazione emotiva dei tuffatori un momento prima del salto. Here There del croato Alexander Stewart è apparentemente il film più staccato dall’intera selezione giornaliera, ma i tratti di un’animazione diaristica, con i bozzetti di un viaggiatore, diventano pura flanerie del tratto, libertà geometrica che non lascia segni mnestici intellegibili, come un amplesso nel momento apicale, radicato alla terra ma libero dalla pesantezza dei corpi.