domenica, Dicembre 22, 2024

L’Angle mort di Patrick Mario Bernard, Pierre Trividic: sul visibile e la cecità, la recensione

Il piccolo Dominick piange, mentre tutta la famiglia di origini africane è occupata nelle faccende quotidiane. La febbre altissima spinge la madre ad allontanarsi per cercare un rimedio, ma al suo ritorno la culla è vuota.

Il prologo de “L’Angle Mort” serve a Patrick Mario Bernard e Pierre Trividic per comunicare il trauma dell’invisibilità evitando la retorica delle facoltà superumane. Tutto ciò che precede i momenti in cui Dominick scompare alla vista dei comuni mortali è caratterizzato da affanno, iperventilazione, ansia estrema. Un attacco di panico che lega la percezione del mondo al desiderio di occupare un punto cieco nella realtà sociale condivisa.

Attivi entrambi come sceneggiatori per  Guillaume Nicloux, Anne Fontaine, Pascale Ferran e già co-registi de “L’Autre”, che nel 2008 aveva fatto vincere la Coppa Volpi a Dominique Blanc, la coppia di autori francesi continua ad indagare l’inafferrabilità della dimensione psichica come sintomo di quell’alterità che si verifica nello spazio della corporeità. Il corpo trattiene le caratteristiche del visibile e dell’invisibile, rapportandosi alla propria percezione del mondo e allo stesso tempo sottraendosi. Ed è così per Dominick ( Jean-Christophe Folly) , la cui vita affettiva a trent’anni dalla sua nascita sembra regolata da quella precarietà che solo l’esperienza del margine può giustificare, un punto cieco dove lo sguardo dell’esclusione può indifferentemente aver origine dall’altrui percezione o dall’inclusione di un pregiudizio palindromo e già visto, nella propria esperienza del mondo. 

Una duplicità che sembra confermata dall’incontro con  Richard (Sami Ameziane), amico d’infanzia e complice dello stesso disagio: la facoltà di diventare invisibile. Nell’incessante ricerca di fenomeni simili, l’amico crede di aver individuato la presenza concreta di persone dotate di straordinari poteri, in grado di offrire un senso all’inspiegabile. Scorrono sul suo monitor le immagini di misteriosi suicidi alle stazioni della metropolitana, dove il gesto irrazionale del gettarsi nel vuoto viene indirizzato ad una forza fisica intangibile che lo provoca, così come l’abilità di un prestidigitatore che ha trovato la possibilità di guadagnarsi da vivere, sfruttando i propri poteri per creare un’illusione “vera”.
Il luogo dello spazio che si materializza tra la pupilla spalancata e la palpebra che si chiude repentinamente, è l’angolo morto dove visibilità ed esclusione della stessa coincidono e si biforcano, aprendosi al molteplice. 

Il rapporto che si instaura tra Dominick e la bella insegnante di musica interpretata dall’attrice iraniana Golshifteh Farahani rovescia i pregiudizi percettivi che legano l’uomo a Viveka ( Isabelle Carré), la donna con cui intrattiene una relazione quasi regolare, secondo un principio legato al “senso di colpa post-coloniale“, come le verrà fatto notare brutalmente da alcuni amici. Elham, non vedente, sprigiona quell’erotismo aptico e sensoriale che l’uomo non riesce altrimenti a vivere e allo stesso tempo riduce l’ansia legata al passaggio dalla visibilità all’invisibilità. 

Al contrario degli eroi descritti dalla letteratura e dal cinema di fantascienza, Dominick non si camuffa con i vestiti per passare “visibilmente” inosservato, ma si sbarazza di ogni maschera, vagando completamente nudo per la suburbia parigina e ferendosi i piedi nel contatto con la strada. Un martirio che lo connette fortemente all’esperienza mondana, proprio quando si stacca irrimediabilmente da essa. 

Tutti gli elementi più espliciti che regolano il confronto tra visibile e invisibile, sfruttando una materia teorica più evidente, come nel caso della relazione con Elham, non sprofondano nelle sabbie mobili del simbolismo, percorrendo una strada empirica e possibile. 
Difficile stabilire chi tra i due sia capace realmente di vedere al di là delle proprie facoltà, perché alla forzatura di Dominick, che crede di scorgere nello sguardo di Elham dalla finestra un indirizzamento soggettivo con la capacità di individuare la sua aura, corrisponde la paura atavica della donna rispetto all’agnizione di quel punto cieco che diventa per lei visione improvvisa e violenta.

In questa sovversione, si verifica uno sdoppiamento tra la percezione e il nome affidato da questo alla “cosa”, quasi che visibile e invisibile cambiassero di posizione, occupando entrambi uno spazio contrastante e indicibile. 

Mentre Elham guarda con il tatto, lo sguardo vacilla di fronte ad un corpo che si ritrae dal visibile, ma che in virtù del proprio negarsi, si identifica con un occhio ossessivamente spalancato sul mondo. Sfugge allora a qualsiasi definizione quell’angolo morto che coinvolge l’oggetto prima d’esser visto, perché nascosto da un ostacolo o perché semplicemente risiede in una posizione ancora potenziale. Entrambi, spaventati dalle proprie facoltà, scambiano tatto e vista con una relazione asimmetrica tra vicinanza e distanza, trovandosi e perdendosi, amandosi e tradendo l’uno la fiducia dell’altra.

Immerso in una luce livida e notturna dal talentuoso Jonathan Ricquebourg, “L’Angle Mort” è anche un film sul modo di osservare e vivere le grandi città globali, tra marginalità dell’esperienza privata e perdita della coscienza collettiva, dove all’interno del contenitore degli stati-nazione, siamo tutti membri destinati ad un’invisibilità senza uscita. 
L’unico modo per tornare ad appropriarsi del proprio sguardo, come accade a Viveka al di là della vetrina dell’asian shop dove Dominick ha trovato un nuovo lavoro, è riconoscere la propria vulnerabilità in quella degli altri. 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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