L’arbitro di Paolo Zucca nasce da un precedente cortometraggio con lo stesso titolo, diretto dal regista Sardo nel 2009, vincitore del Davide di Donatello e del premio speciale della giuria a Clermond-Ferrand, da cui recupera il bianco e nero e alcune idee, sviluppandole sulla base di una struttura narrativa che mantiene intatta l’autonomia del bozzetto.
Lo scenario, appena suggerito nel cortometraggio, è quello di una Sardegna ancestrale dove il tempo sembra essersi fermato ai rituali di cinquantanni fa e la lotta calcistica della terza categoria Sarda è tra l’Atletico Pabarile e il Montecrastu, la squadra guidata dal padrone di tutta la campagna circostante, Brai (Alessandro di Clemente), abituato a maltrattare gli avversari sul lavoro e sul campo da calcio.
Prospero (Benito Urgu) è l’allenatore non vedente del Pabarile, il pallone per lui non ha una forma, non è un oggetto “rotondo”, ma è “aria” con del cuoio intorno, come racconterà ai suoi giocatori, sempre e irrimediabilmente perdenti, offrendo da subito un’idea del gioco visionaria, libera da qualsiasi ostacolo che non sia quello della fantasia agonistica.
Nel mondo parallelo del calcio ad altissimi livelli, Cruciani (Stefano Accorsi) è un’arbitro ad un punto di svolta; ligio al dovere e al rispetto dei ruoli dovrà decidere se continuare su una strada che non può pagare nel contesto di uno sport corrotto, oppure scegliere la via compromissoria indicata da Candido, lo spalleggiatore interpretato da Marco Messeri.
Co-sceneggiato da Barbara Alberti e prodotto dalla Classic di Amedeo Pagani, il film di Paolo Zucca si tiene ben alla larga dal restituire un’imagine complessa della cultura Sarda, sicuramente in modo del tutto intenzionale, preferendo costruire un’antropologia grottesca che si sofferma su volti, azioni circoscritte nello spazio della gag, elementi di una ritualità visiva che erano già presenti, in versione sintetica, nel cortometraggio del 2009.
Una prospettiva ludica che puntando quasi sempre alla deformazione, mette al centro la fisicità fuori margine dei personaggi, basta pensare al modo in cui reinterpreta l’umorismo di Geppi Cucciari, esaltandone le caratteristiche fisiche e aggressive, oppure al veloce passaggio di Francesco Pannofino e Marco Messeri, entrambi con il piede sull’acceleratore di un sadismo esibito, quasi da teatro vernacolare.
Con lo stesso senso del gioco, Zucca si inventa una serie di numeri musicali; le danze in solitaria di Accorsi e della Cucciari sembrano fare il paio con i momenti di libertà sgangherata sul campo dove si scontrano le due squadre Sarde, hanno la sostanza del siparietto, mettono al centro la performance per quello che è, esattamente come il rituale amoroso tra Matzutzi (Jacopo Cullin), il battitore libero tornato dall’Argentina, e Miranda (la Cucciari), oppure i frammenti della festa ritualistica conclusiva, quasi il segno di un’Italia indietro nel tempo che non sembra avere il peso di un’intenzione morale, se non quella espressa da Prospero nella sua idea di Calcio.
Guardando L’Arbitro viene in mente la parte più riconoscibile e superficiale del cinema di Ciprì e Maresco, in una relazione che quindi confonde quella deformità traumatica con questa deformazione caricaturale di cui si parlava, o ancora l’involucro di alcune opere di Berlanga, quindi più marcatamente il grottesco Sorrentiniano o certi corpi dell’ultimo Garrone, ovvero i segni di un cinema che non riesce ad uscire dall’impasse del quadretto; ma è una questione di gusti che non ci interessa, al contrario ci chiediamo cosa sarebbe stato un remake ferocissimo di un altro Arbitro, quello diretto da Luigi Filippo D’amico nel 1974, che in modo triviale, sgangherato, pecoreccio e fuori dalla trappola dello “stile” raccontava già quello che siamo diventati.