mercoledì, Dicembre 18, 2024

L’atalante di Jean Vigò in versione restaurata al cinema: la recensione

Ci sono cose che solo i poeti possono dire dei poeti, e di  Jean Vigo si possono scrivere fiumi di parole, ma non bisogna dimenticare che è lui il primo dell’elenco di Truffaut, e i film della sua vita partono da Zéro de conduite e L’Atalante.

L’Atalante contiene tutte le qualità di Zéro de conduite e altre ancora quali la maturità, la maestria. Vi si trovano, riconciliate, due grandi tendenze del cinema, il realismo e l’estetismo. Ci sono stati nella storia del cinema dei grandi realisti come Rossellini e dei grandi esteti come Ejzenstejn, ma pochi cineasti si sono provati a fondere le due tendenze quasi fossero contraddittorie. Per me L’Atalante contiene nello stesso tempo A bout de souffle di Godard e Le notti bianche di Visconti, vale a dire due film incomparabili, che sono certamente l’uno agli antipodi dell’altro, ma che sono anche quanto di meglio si è fatto in ciascuna delle due direzioni.” (da F.Truffaut, I film della mia vita,ed.Marsilio, 1978)

Jean e Juliette oggi sposi. Escono compunti ed eleganti dalla chiesetta della campagna francese, guidano il piccolo corteo vociante e spettegolante di parenti e amici, qualcuno si rammarica che non ci sia un rinfresco, un altro dà una pacca nel punto giusto alla carina di turno, tutti si fermano sulla riva, davanti alla vecchia chiatta che aspetta la coppia, l’amour fou richiede qualche sacrificio e la piccola Juliette dovrà salire lì per viverci e lo farà in volo radente, appesa alla barra dell’elica, una di quelle trovate che Vigo mette in scena a sorpresa, stralunati ghiribizzi  di quel mondo à part che è il suo cinema.

L’aspettano panni sporchi da lavare, giorni indolenti a non far quasi nulla, notti semivuote con Jean al timone fino all’alba, brume sui canali di Francia dove sembra sia sparita perfino Parigi. E quando Parigi arriva, finalmente, père Jules, vecchio lupo di mare di cui Vigo tratteggia un ritratto indimenticabile, ha i suoi malumori e se ne va in giro, lasciando la giovane coppia a far la guardia a bordo. Juliette voleva vedere un po’ di mondo, bastano pochi, tenui tocchi lasciati qua e là da Vigo, per capire perché non ha sposato uno del paese, Jean è il suo amore, la sua passione, ma c’è anche una testolina di donna bionda e carina che scalpita, cuce vestitini e s’incanta davanti a collier d’oro in vetrina, e se l’ambulante giocoliere,venditore di nastri colorati della salle è dancer, l’invita a ballare, non fa la ritrosa e Jean, sempre più incupito, si scatena geloso. Juliette è joie de vivre, nell’acqua vede fluttuare ciò che ama, basta immergersi ad occhi aperti. Jean prova, una, due, tre volte nel secchio, poi nel canale, non riesce.

Deve arrivare il momento giusto, quella scena che ormai da sola contiene tutto il cinema. E arriverà il giorno in cui teme di averla perduta. E allora Jean la vede, e Juliette che danza sott’acqua è come era sempre stata per lui, da quella volta in chiesa, vestita di bianco, con quel sorriso da bambina, e poi sopra coperta, quando giocavano a rincorrersi e ad amarsi, tempi felici, i primi, e poi la vie s’en va. Per raccontare le storie e dire come la vita trasforma non servono sempre poemi infiniti, c’è il breve frammento, il verso spezzato, la favola lieve come questa. Juliette  non vuol puzzare di naftalina, così cantava l’ambulante (La campagne c’est bien loin de la ville / et ça ne lui ressemble en rien du tout / o mon amour de quatre sous / ça sent si bon la naphtaline) e si perde nei tentacoli della città in cui farà una breve fuga, ma Jean non l’aspetta e parte, si ritroveranno a Le Havre, miracoli del cinema, père Jules la scopre in un negozio di musica mentre ascolta in cuffia una canzone che le ricorda Jean e la riporta a L’Atalante.

Vigo ha un genio tutto suo per dire con poche battute di un mondo di luce e lustrini sotto il quale c’è povertà, indifferenza e scatenamento della massa sempre pronta a lapidare qualcuno, disoccupazione a livelli di guardia (non si assume è scritto sul cancello della fabbrica e la piccola Juliette, borseggiata, non sa come fare) e solitudine di stanze in affitto, sole, a sognare chi non c’è. E’ la città cercata da Juliette, il suo sogno che va in briciole. Un lieto fine non aiuta a dimenticare questa realtà. Vigo ha girato il suo capolavoro in pochi mesi (agosto 1933 – gennaio 1934) e la salute già minata ebbe il suo colpo finale, nell’ ottobre di quell’anno morì.

Anche la sua è stata una favola breve, non semplice, sentiva che doveva “dire tutto e subito”, ma riuscì a non vedere lo scempio che per anni si fece di questo film, fino al 1950, quando Henri Langlois lo presentò finalmente con le principali parti reintegrate al Festival du Film de Demain, organizzato dalla Cinémathèque Française. Insieme ai tagli delle scene, la parte a subire le peggiori decapitazioni fu la musica di Jaubert, tagliata in buona parte per attaccarci sopra la canzone Le chaland qui passe  (Il battello che passa), stravolgendo così la bellezza della versione originale che il musicista aveva affidato al pizzicato degli archi, al gioco allegro della musette e alla profondità del sax per il tema d’amore.

Oggi L’Atalante è tornata ad essere quell’impasto di delicatezza, raffinatezza, humour, eleganza, intelligenza, intuizione e sensibilità” che Truffaut ben seppe cogliere fin dalla prima visione, e l’omaggio che Ghezzi rende a entrambi in Cose mai dette è quanto mai doveroso e condivisibile: “C’è una frase che non si ricorda bene Roberto Turigliatto, una frase probabilmente di Truffaut, oppure, chissà, di Godard. Ci piace immaginare che esista questa frase, perché non può esserci rimasta in testa dal nulla, a proposito del fatto che alla fine del L’Atalante (da cui è tratta, come spero ormai sappiate, la sigla di Fuori Orario) nella scena d’amore finale, dopo il ricongiungimento dei due amanti viaggianti, di questa famiglia nomade, di questa ipotesi di amor fou e insieme matrimoniale, quando i due si appartano (subito prima della fine, per fare l’amore), lì, fuori campo, in quel fuori campo, nasca Antoine Doinel. Antoine Doinel è il protagonista dei Quattrocento Colpi, il primo dilm di Truffaut, Jeanne Pierre Léaud. Ed è colui che poi Truffaut ha ricapitolato in quel film geniale che è L’Amore Fugge. Ecco, questa fuga d’amore per Truffaut nasce in questo fuori campo de L’Atalante. Questo per dire che il cinema, in qualche modo, nasce sempre fuori campo … Il vortice delle macchine, faticose dure metalliche, dei sollevatori, delle gru che producono energia, che obbliga ad altri sforzi quelle altre macchine che sono gli uomini, che quindi non possono solo nuotare, galleggiare sulle nuvole, amare, credere di potere solo amare, come nell’Atalante. Questo è il dramma de L’Atalante, questo desiderio che ci sarebbe di stare solo su questa chiatta, solo sulla leggerezza dell’acqua, vivere solo in questa dimensione, davvero ultrafilmica. Abbandonata per sempre la Fabbrica Lumière che vediamo tutte le notti, vivere altrove. (E. Ghezzi, Cose mai dette)

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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