giovedì, Dicembre 19, 2024

L’atelier di Laurent Cantet: la recensione

“Ha mai provato il desiderio di uccidere?” 

Antoine (Matthieu Lucci), uno degli allievi di un corso di formazione legato alle tecniche di scrittura del romanzo, rivolge l’interrogativo a Olivia Dejazet (Marina Fois), l’insegnante a cui è stata affidata la classe e che forte della sua esperienza come scrittrice, deve guidare verso la realizzazione collettiva di un racconto finzionale. Lo sfondo è quello de La Ciotat, città portuale nel cuore della Provenza, la cui progressiva crisi industriale non è riuscita a nascondere il disagio con il benessere esibito.

Antoine cerca nella parola una possibile espressione della verità, provocatorio con i suoi compagni, soprattutto quelli musulmani, manifesta e descrive una visione cruda e spesso violenta della realtà, alimentando lo scontro identitario. Oltre l’evidenza Antoine è l’unico che riesce ad introdurre nello sviluppo del “thriller”, oggetto delle esercitazioni, un “punctum” che metta in discussione la stessa superficie narrativa. Dal suo punto di vista La Ciotat che conosce è assente, completamente privata di senso, proprio nella rappresentazione di quello stesso vuoto che vive e sperimenta ogni giorno.

Cantet torna a lavorare con il fedele Robin Campillo dopo la collaborazione con Leonardo Padura, mantenendo la stessa prossimità ai testimoni diretti di una città “invisibile”, ma assolutamente tangibile come la Cuba di “Ritorno all’Avana“. E non è meno dolorosa e duale, rispetto all’anatomia di un regime esperito attraverso la coscienza collettiva, la descrizione di una città borghese, percepita ai margini di un racconto, nel found footage di vecchie immagini documentali, tra le tracce disseminate sui social network ed infine in quella sottile tensione che attraversa il confronto tra i ragazzi che partecipano al workshop, morfologia urbana che prende corpo attraverso il  gesto, la parola e il racconto dell’esperienza individuale.

Evitando completamente le forme didascaliche del metalinguaggio, Cantet si serve del dispositivo dialettico per creare e allo stesso tempo, mettere in discussione la costruzione del senso.  La memoria di una città mai vissuta, nel suo massimo fulgore industriale, affida a La Ciotat una qualità fantasmatica, mentre il racconto di Antoine, tra finzione e aderenza, sporca con il sangue dell’attualità globale, lo sviluppo di un romanzo che a un certo punto sembra tener fuori gli aspetti più oscuri dell’esistenza.

Un mal di vivere che contrasta con la natura circostante, gli esterni balneari, le villette a schiera di una società dormiente, la pulizia formale di un sistema formativo che rivendica la “giusta” impostazione didattica. 

Proprio quando diventerà troppo facile presumere e conoscere la formazione nazionalista alla base delle parole e della scrittura di Antoine, Cantet avvicinerà pericolosamente il ragazzo alla percezione dell’insegnante, interrogando lo stesso sguardo del pregiudizio come modalità di osservazione della realtà che tutti coinvolge. 

Cantet svuota quindi la tensione del thriller di alcuni elementi costitutivi e sostituisce al delitto il desiderio che questo avvenga, alla violenza la potenzialità del gesto, al massacro l’immaginario mediato dalla comunicazione di massa che ha contaminato anche il linguaggio comune. Sposta quindi la forza catartica rovesciando la palpebra del controllo e la rileva in quel vedersi improvvisamente visti, ovvero nel riconoscere il germe del razzismo proprio entro quell’area di sicurezza che ci consente di immaginarci migliori e che ci ha spinto a sostituire con il rifiuto, la conoscenza e la comprensione dell’inaccettabile.

Prima che Antoine brandisca nuovamente una pistola, passando dalla narrazione “social” alla realtà relazionale, Olivia non esprime minore violenza nel forzare le risposte che crede di conoscere in anticipo riguardo la vita del ragazzo. E quando la minaccia è ormai alle spalle rivelandosi come estrema richiesta d’aiuto, la fuga della donna dimostra la qualità coatta dell’empatia con “caino”. 

Della Francia post-Bataclan Cantet riesce a fermare quel senso di disorientamento che attraversa la coscienza delle nuove generazioni, ma anche  l’incapacità dell’azione formativa di avvicinarsi alle persone comuni, al loro vuoto, a quel dispossessamento che Antoine descrive rispetto ad un’identità urbana che ogni giorno gli sfugge.

L’Atelier di Olivia sembra quindi fallire proprio nella sua missione fondativa, quella di trasformare la prassi della scrittura collettiva in uno strumento di conoscenza che si apra improvvisamente all’imprevisto della vita, non importa se si muova o meno sul bordo. 

Mentre i confini accettabili e accettati della convivenza collaborativa vengono messi in salvo, Cantet ci mostra l’improvviso sconfinamento dei due mondi, laboratoriale e individuale, stratificando sentimenti, desideri, paura, orgoglio, pregiudizio.

Con violentissima urgenza verbale, Antoine mette in luce la distanza dalla vita che conosce nella scrittura “desueta” di Olivia, questa al contrario utilizza la dimensione tecnica e culturale come uno scudo per occupare una posizione sicura.

E se l’insegnante risponde alle sollecitazioni più oscure del ragazzo imbastendo una “detection” morbosa e invasiva per mettere insieme l’analisi autoptica di un soggetto che immagina come potenzialmente pericoloso, è proprio il talento istintivo di Antoine a catturare un frammento urbano indicibile con una descrizione che scardina il genere stesso a partire dal suo personale girare a vuoto in una città irriconoscibile, dove non c’è alcun cadavere da cercare, nessun colpevole da individuare, se non la propria ombra in un tempo ormai perso.

A quella solitudine, sembra dirci Cantet, non è più possibile rispondere con il disprezzo. 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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