Saverio Crispo (Francesco Scianna) è un mostro, come frankenstein, e per progettarlo Cristina Comencini si è servita di tutte le icone maschili del cinema italiano tra i cinquanta e i settanta miscelando mitologie note, ricostruzioni nostalgiche, aneddoti rielaborati, iconografie abusate, incursioni nella memoria di un “cinema grande” che adesso parla a distanza con le numerose donne dell’attore, tra mogli ufficiali, amanti clandestine, figlie seminate in tutto il mondo e qualche sorpresa “illegittima”. Accorse per celebrare il decennale dalla sua morte, le rivali in amore si riuniranno nella villa di Rita (Virna Lisi) la prima moglie di Crispo, figura materna che ne conserva ancora la casa-mausoleo e che in qualche modo avrà il compito di mantenere l’equilibrio tra le varie parti in causa, in questa sorta di grande freddo all’italiana interamente basato sul ruolo delle donne come veicolo principale per le ossessioni maschili.
La Comencini torna ad immergersi nei giochi di famiglia e rispetto a “Liberate i pesci” e “matrimoni” o al più intimista “Quando la notte”, amplifica l’effetto sorpresa semplicemente moltiplicandolo e inanellandone uno dietro l’altro; il risultato è sempre lo stesso, un esercizio di stile personale più che politico, le cui intenzioni dovrebbero esser quelle di mostrare il lato oscuro, disfunzionale, e allargato della famiglia tradizionale, qui tenuta insieme da un manipolo di donne adoranti, pronte a tutto pur di onorare il culto del mattatore.
Ma il sabotaggio non è mai tale, anche quando la promiscuità arriva all’apice, si svelano le preferenze sessuali di Saverio e si arriva a sfiorare l’incesto. Come in tutto il cinema della regista romana, la superficie drammaturgica è talmente evidente da riproporre alcuni trucchetti della commedia di situazione, in versione rallentatissima e senza che il ritmo prenda il sopravvento sullo schema, basta pensare alla corsa per i vicoli dello stuntman Pedro (Lluis Homar) a caccia di un paparazzo inopportuno; la Comencini invece di insistere sul peso degli anni e sul fisico sottoposto ad uno sforzo improvviso, si distanzia nuovamente dai corpi e confeziona una sequenza tutta rileccata, con tanto di deriva western e viraggio color seppia; riferimento cinefilo, certo, ma con la maniera di una brutta fiction televisiva.
E se l’attenzione museale ai riferimenti è più o meno tutta sullo stesso tono, il personaggio di Picci, l’anziano critico interpretato da Toni Bertorelli che apre il film e che viene rappresentato nel peggiore dei modi; pedante, noioso e ancorato ad un patrimonio di memorie di cui si sente l’unico depositario, non ci è sembrato troppo lontano dal fil rouge dei giornalisti democristiani (Rondi, Bersani, Mollica, Marzullo) guardiani del museo che hanno in un certo qual modo favorito l’idea di una critica come “cronaca”, il cui compito è quello di raccontare la grande fabbrica di sogni, la polvere di stelle il tutto condito con tonnellate di retorica; cinema che non è quello a cui la Comencini si riferisce, ma che al contrario è il suo stesso cinema, incapace di rinunciare al santino e all’immaginetta.
E se Virna Lisi riesce a scompaginare le carte con quella sua sorprendente naturalezza che la rendeva testimone flagrante del cinema ri-pensato attraverso le immagini di Crispo, la Comencini sembra non lasciare corda, nè a lei nè alle altre, per evadere dal bunker teatrale in cui si trovano.
Si obietterà che “Latin Lover” prende in giro proprio quel tipo di mitologia e che è un film “dalla parte delle donne”, perché toglie i capelli a Ramona (Marisa Paredes), consente a Susanna (Angela Finocchiaro) di fare un pippone contro il carisma distruttivo e manipolatorio del mattatore e sul ruolo passivo di chi gli ha gravitato intorno, quando al contrario, Pedro troverà nella retorica di uno sguardo amorevole la saldatura perfetta tra industria e famiglia, ovvero il motore principale che muove il cinema italiano.