martedì, Novembre 5, 2024

L’Autre Continent di Romain Cogitore – Les Arcs Film Festival 10: la recensione

Sono passati tredici anni da “La tourneuse de pages” di Denis Dercourt, ma la curiosità e la determinazione di Déborah François hanno mantenuto la stessa intensità. Nella ricca galleria di personaggi interpretati, quello scritto da Romain Cogitore è tra i più ricchi e complessi, perché conduce l’attrice belga ad una difficile conciliazione degli opposti. “L’Autre Continent” comincia con una serie di brevi addii orchestrati dai tempi frequentativi della commedia. Sono almeno tre gli amanti che Maria saluta prima di partire per Taipei sotto lo sguardo attonito della madre, mentre le due donne attraversano la città in macchina. “Ti amo”, “Carpe diem” e l’aereo che decolla contro il cielo notturno.

Lo sguardo affamato di vita, l’esperienza di una cultura estranea e la rinascita continua legata all’apprendimento di una nuova lingua, sembrano collidere con la descrizione parallela di alcuni luoghi della memoria, svuotati dalla presenza umana. Cornice che introduce una nota contrastante rispetto alla gioia della scoperta, sperimentata da Maria durante i primi mesi di permanenza in terra straniera.

Olivier (Paul Hamy) entra improvvisamente nel campo visivo della donna mentre questa guida alcuni turisti all’interno di un’area sacra. La sicurezza predatoria di Maria agevola il primo approccio, ma a modulare i tempi e gli incontri sono i modi alieni e l’ossessione quasi infantile dell’uomo per la conoscenza delle lingue.

Una mente giocosa e geniale quella di Olivier, legata all’incremento delle facoltà mnemoniche come esercizio quotidiano. La conservazione di un segno e l’apprendimento di un vocabolo vengono strettamente legati alla produzione di immagini interiori, una prassi non così distante dalla meditazione e che gli consente di ricreare oggetti, stanze e intere città grazie all’identificazione della sorgente che genera la realtà esperita. Ad occhi chiusi, la negazione della visione apparente ne ricrea una tutta mentale, dove è possibile collocare e riconoscere tutti i segni e i lemmi che la definiscono.

Resistenza tenace rispetto al modello frenetico modellato dall’immaginario urbano, proprio quello che Romain Cogitore sceglie di trasformare insieme all’occhio del fedele Thomas Ozoux, inquadrando ad altezze quasi satellitari il brulicare della città oppure elaborando una poetica tra dettaglio e miniatura, nell’impiego estremo del fuoco selettivo per rivelare da alcuni scorci ciò che la nostre attitudini percettive hanno dimenticato.

Il risultato si avvicina alle miniature aeree di Olivo Barbieri o ad alcune mappature urbane osservate da Vincent Laforet con la tecnica tilt-shift, dove all’ampiezza dell’angolo corrisponde un’assenza totale di distorsione prospettica, ma allo stesso tempo si rende visibile e nitido solamente un piano visivo, sfocando tutto il resto.

Mentre Barbieri desume queste scelte dalla fotografia architettonica e dalla cultura della sorveglianza dove tutto è visibile, per rovesciarne i parametri attraverso uno sguardo in grado di riscrivere l’osservazione della realtà con un ribaltamento delle stereotipie che ci consentono di distinguere il “verosimile” dal “falso”, Romain Cogitore solleva altre questioni legate al rapporto tra immagine del reale e memoria, disseminando il suo film di dettagli periferici che attivano costantemente nuovi processi della visione.

La grave malattia che colpisce Olivier e il conseguente stato di coma profondo che lo incatenerà ad un letto d’ospedale muterà drasticamente la visione di Maria. Se la sollecitazione verbale e mnemonica si rivelerà l’unica in grado di tirar fuori il compagno da un tempo irreversibile, contro tutte le previsioni mediche, ciò che rimarrà dell’uomo conosciuto di ritorno dall’oblio, sarà  il grado zero di un lungo percorso di apprendimento cognitivo e affettivo. 

Senza più memoria a lungo termine, senza alcuna capacità di riconoscere le cose, Olivier si perderà in un mondo totalmente estraneo, dove l’osservazione dello spazio quotidiano fa eco alle immagini “selettive” che Cogitore ci mostra sin dall’inizio del film. 

Se l’essenza teorica di “L’Autre Continent” viene marcata da un contrappunto visuale sin troppo presente, il contrasto con la potenza effettiva del gesto affidato ai suoi interpreti, riesce a delineare quel transito sottile tra esperienza e visione, raccontando con sorprendente verità la coesistenza del gioco amoroso con la minaccia della dimenticanza. 

Su un piano squisitamente fotografico l’estrema selettività dello sguardo, si avvicina sempre di più alla nostra capacità di concentrazione sui piccoli dettagli che rendono vivi il quotidiano, laddove la dimensione prospettica dell’immagine annulla il passato e non consente di scorgere il futuro. 

Mentre Olivier deve mappare nuovamente le relazioni che determinano il segno come sistema, incapace com’è di riconoscere la sua posizione nel mondo, in quell’innocenza radicale Maria non riesce più a scorgere la storia della loro esperienza condivisa. Potrà ritrovarla solamente a patto di intraprendere un doppio percorso di separazione e avvicinamento all’anima delle cose, lasciando nuovamente la Francia per immergersi nelle tracce, nei luoghi, nei dettagli e nei colori dell’altro continente.

Film visionario quello di Romain Cogitore, ma fortemente legato alla realtà inafferrabile del sentimento amoroso, riesce a raccontarci attraverso un percorso estremo, la verità pulsante del ricordo; questo diventa possibile e nuovamente vivo quando la memoria procede senza soluzione di continuità dall’interno all’esterno, tra perdita e riconoscimento dei propri confini identitari. 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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