Le sue parole e l’intensa regia che improvvisa, l’accondiscendenza alcolica dei compagni che si muovono ruotando goffamente lungo la fantomatica ellisse, il silenzio dei lunghi momenti di immaginario buio totale, quando il pianoforte entra con brevi accordi, e il ritorno del sole, la gioia della luce e del calore dopo il gelo, sono momenti di grandissimo cinema creato dal nulla. Nell’ottuso viso immobile dell’oste che infine apre la porta e grida: “E adesso via, branco di ubriachi”, c’è tutto quello che vedremo nel resto del film, l’incapacità di comprendere, il brutale egoismo che sbarra le porte ad ogni ipotesi di salvezza, la cecità dell’ “individuo chiuso in un suo scopo tetro e impenetrabile” (( N.Chiaromonte, Il tarlo della coscienza, ed. Il Mulino ))
Fuori, in strada, mentre Janos cammina verso la macchina da presa ed entra la fisarmonica in un dialogo malinconico con il piano, il buio è denso, pesa sul passo di Janos che va, la sacca a tracolla, le mani in tasca e lo sguardo ancora sereno. Il suo giro notturno e mattutino prevede tappe fisse, lavoretti precari, un passaggio alla mensa dei poveri con il suo thermos multistrato, giornali da distribuire e assistenza all’anziano professor György Eszter, musicologo di fama che Janos ascolta con ammirazione mentre gli porta il caffè, le teorie musicali che lo studioso sta registrando al microfono hanno un fascino misterioso, si parla di armonia naturale, di Andreas Werckmeister, un organista del XVII secolo, che divise l’ottava in dodici parti, sostituendo gli intervalli tonali matematicamente puri con intervalli impuri, a favore di una maggiore piacevolezza del suono, rompendo così quel legame tra la musica e il divino che è l’armonia dell’Universo.
Ora bisogna tornare a quell’armonia, unica possibilità per resistere all’ Apocalisse che avanza. E’ ancora un romanzo di Krasznahorkai Laszlo (La Malinconia di Resistenza) a fornire il plot a questa parabola sulla cecità delle masse e sul marasma sociale che prepara la strada all’assolutismo, quando tutte le difese crollano per la paura della libertà. L’aria in città è gravida di presagi funesti, frammenti di discorsi si colgono qua e là, pieni di paura per qualcosa che sta per accadere, ma nessuno è capace di capire da dove arrivi il pericolo, e l’ enorme balena che entra in città di notte insieme col “principe” nano, fenomeni da baraccone in un container da Circo, è il pretesto per indirizzare verso il necessario capro espiatorio paure individuali e collettive. Sotto gli occhi sempre più increduli di Janos si gonfia la violenza, la vediamo crescere in quella piazza spettrale che si riempie di uomini immobili e tesi, di fuochi accesi sul selciato, mentre della balena s’intravede la coda dal portellone aperto e solo Janos entra a vederla, per lui è una meraviglia della natura che lo riempie di magico stupore, per tutti gli altri è la minaccia indefinibile che reclama una difesa a qualsiasi prezzo e il “principe” è un’aleatoria entità che detta legge dal suo trono invisibile e ordina stragi.
Ed ecco allora spuntare comitati per la difesa della salute pubblica, carri armati e gerarchi, la signora Tünde (Hanna Schygulla) in veste di furba pasionaria (quella stupida cicciona, l’aveva definita il professor Eszter, suo marito un tempo ed ora molto attento a starne lontano) che briga con le alte sfere del potere, l’individuo si trasforma in massa, ne viene assorbito fino a diventare quella “… specie di animale superiore in cui l’uomo si perde completamente come se un singolo uomo non fosse mai esistito”. (( E. Canetti., Auto da fé, 1967, trad. B. e L. Zagari, ed. Garzanti, p. 436 ))
Tarr pone a questo punto la violenta sequenza della distruzione dell’ospedale della città, akmé tragica del film, assente nel romanzo:
“…ebbi la sensazione che fosse un fenomeno simile a quello che in fisica è noto come forza di gravità. Ma questa, è ovvio, non era una vera spiegazione di quel fatto sorprendente. Infatti non eri né prima, come individuo isolato, né dopo, come parte della massa, un oggetto inanimato, e la metamorfosi che si verificava all’interno della massa, un mutamento completo della coscienza, era un fatto che penetrava in profondità, rimanendo però enigmatico.” (( E.Canetti, Il frutto del fuoco, 1980, trad. A. Casalegno e R. Colorni, ed. Adelphi, 1982, p. 89 ))
Sono parole di Elias Canetti, il più profondo conoscitore del fenomeno “massa” del secolo scorso e le immagini di questa mattanza le trasformano in atroce evidenza visiva. Bela Tarr rispetta i suoi personaggi, li lascia muovere senza forzare, le sue lente carrellate e le inquadrature fisse non dilatano il tempo, piuttosto lo osservano scorrere come entità reale, fenomenica, capace di contenere nella sua misurabile consistenza misteri incommensurabili, sistemi solari che si sgretolano, teorie musicali in frantumazione, il montare inspiegabile di questa violenza che si arresta solo di fronte al vecchio nudo, fotografato su fondo bianco accecante nella fissità immobile dei sopravvissuti ai lager. Con esemplare sobrietà il regista scrive ora l’epilogo, sottraendo luce alla scena e facendo sparire dagli occhi di Janos quel fiducioso abbandono alle cose della vita. La sua fuga lungo i binari, vittima incolpevole di un delirio collettivo, e la sua cattura mentre un elicottero scende dal cielo dopo averlo intercettato sono il prefinale, quindi un letto di ospedale psichiatrico, il suo silenzio totale, la sua assenza mentre il professor Eszter gli parla da vinto, le sue teorie musicali sono fallite, ha di nuovo accordato il pianoforte, ora comporrà musica più adatta all’ascolto del pubblico, lo aspetta a casa quando sarà guarito e la vita, bene o male, continuerà.
Ma Janos ormai non c’è più. Alla fine della dolorosa epopea di Werkmeister sentiamo di poter riferire anche a questo film le parole che Claudio Magris scrisse per Autodafé di Elias Canetti: “La grottesca odissea dell’intelligenza che, per paura della vita, si trincera contro di essa, riduce l’esistenza intera a un meccanismo di difesa, si costruisce una corazza e infine si distrugge, proprio perchè si è trasformata tutta in una corazza, che soffoca ogni cosa […]Nel romanzo la vita è ritratta con l’occhio gelido della follia, in una sua disperata mancanza d’amore che fa sentire, per contrasto, ciò che la vita dovrebbe essere, la necessità dell’amore.” (( Claudio Magris, Strenuo custode della vita.L’odissea dell’intelligenza contro ogni pulsione di morte, dal Corriere della Sera, 19 agosto 1994 ))