Il matrimonio può essere un campo di battaglia o solo un arido pezzo di terreno dove dopo ventinove anni la resilienza dei due condottieri è venuta meno e le strategie si sono esaurite. La pittoresca casa di Grace e Edward è stata luogo di immancabili schermaglie fin quando Edward sfinito e di nuovo innamorato ha lasciato Grace da sola a contemplare un cumulo di macerie e il vuoto di un’unione arrivata alla sua tragica resa.
William Nicholson attinge alla sua esperienza personale, esegue un’autopsia lucida di quella che è stata l’unione dei suoi genitori e la sua esperienza di figlio, fedele e leale ad entrambi. Infatti pur essendoci una seconda donna, non è lei la protagonista di questo ménage a trois, ma Jamie, un allibito Josh O’Connor, che osserva l’implosione del matrimonio come quando si è costretti a guardare un film dell’orrore che ci spaventa a morte ma siamo incapaci di distogliere lo sguardo. Suo padre, Bill Nighy, è un uomo mite, sottomesso che trova piacere nell’aggiornare Wikipedia e fare i cruciverba, o almeno è come lo ricorda Jamie che resta sconvolto davanti a una rinnovata determinazione quando con la valigia sulla soglia della porta si lascia tutto alle spalle senza girarsi indietro. Un inatteso fuoco che potrebbe renderlo ridicolo ma che gli lascia la speranza di poter ottenere una nuova chance.
Mentre sua madre, un’ipnotica Annette Bening, è senza parole, lei che ha cercato disperatamente ogni volta di convincere l’uomo reticente e pacato che aveva sposato a un coinvolgimento emotivo attivo, a scuoterlo con i suoi assalti verbali da quel tormentato stoicismo, è ora esausta su una sedia, abbandonata, senza più forze. Non sa come raggiungerlo, per la prima volta nella sua vita sembra che qualcosa sia fuori dal suo controllo. Così Grace nella casa che si affaccia sulle bianche scogliere di Dover accusa Edward di interrompere la loro relazione per indifferenza e rassegnazione, lo attende sulle scale per non perdere di vista la porta, non riesce a rinunciare all’abitudine di irritarsi e arrabbiarsi con lui per la sua vulnerabilità, non comprende come possa rifiutarsi di combattere con lei, ma forse ciò che le sfugge è che il marito non sia mai stato al gioco e con il tempo questo sia stato il meccanismo fatale che l’abbia allontanato.
Così l’attesa si trasforma in una dolce e innegabile forma di impotenza.
Le cose che non ti ho detto è la storia di un matrimonio andato in frantumi ma anche il racconto poetico di come tutti e tre, Grace, Edward e Jamie imparino a far fronte agli inevitabili cambiamenti avvenuti, grazie a una sceneggiatura complessa che non sfocia mai nello sdolcinato o nel rumoroso, ma viene eseguita dagli attori con grazia e naturalezza.
La lingua di Nicholson è spesso poetica come si addice a un drammaturgo, e ciò può rendere l’esperienza di questo film statica e scoraggiante, infatti l’opera non sfugge mai del tutto ai confini del palcoscenico, dove in realtà il regista l’aveva pensata.
Le cose che non ti ho detto, è stata un’opera teatrale prima di diventare un lungometraggio, esordì a Broadway nel 1999, fu candidata a un Tony e aveva un titolo che suonava come una perfetta metafora di quello che gli spettatori avrebbero visto, The Retreat from Moscow, ispirato dagli infausti eventi che videro i soldati feriti in battaglia e abbandonati durante la disordinata ritirata dell’esercito napoleonico da Mosca nel 1812.