domenica, Dicembre 22, 2024

Le due vie del destino – The Railway man, di Jonathan Teplitzky: la recensione

I conti con il passato non si possono chiudere. Mai. Soprattutto se il passato è segnato da guerre e sofferenze, da torture e prevaricazioni. Sono passati quasi 40 anni ma Eric Lomax non può dimenticare quello che ha vissuto, quello che ha visto con i suoi giovani occhi da soldato britannico durante la Seconda Guerra Mondiale. Sul fronte asiatico Lomax finisce prigioniero dell’esercito giapponese e assieme a suoi compagni è costretto a lavorare alla costruzione della linea ferroviaria che dovrà collegare la Birmania e la Thailandia. L’unico contatto con il mondo esterno è una rudimentale radio che i prigionieri costruiscono per avere notizie sull’andamento della guerra. Presto però la radio sarà scoperta dalle guardie giapponesi e, per proteggere i suoi compagni, Lamox subisce per due settimane le più atroci torture, fisiche e psicologiche, che segneranno per sempre la sua vita. Mai infatti Lamox riuscirà a dimenticare e a liberarsi dai suoi incubi notturni. La sua vita (e quella degli altri reduci) è scandita così, tra ricordi e tormenti, fino a quando nel 1980 arriva una donna, Patti, che diventerà sua moglie. L’incontro sarà decisivo per affrontare definitivamente il trauma.

Tratto dal romanzo autobiografico The Railway Man, scritto dallo stesso Eric Lomax, Le due vie del destino si staglia a metà tra film di guerra e dramma intimista. Senza grandi sussulti autoriali, affidandosi ad una regia attenta e meticolosa ma mai realmente convincente, Jonathan Teplitzky confeziona un film regolare che vive sul continuo rimbalzo tra il tempo storico e il tempo presente da cui nasce e si sviluppa la narrazione. Proprio nel disinvolto passaggio tra passato e presente (il 1980, quando Lomax incontra sua moglie) si vuole certificare l’impossibilità dell’oblio, con il protagonista che vive la sua contemporaneità in stretta compenetrazione con i fatti che gli hanno sconvolto l’esistenza. La ferita aperta, impossibile da rimarginare, viene resa anche a livello visivo e di regia, con la predominanza del chiaroscuro nella prima parte del film, quella in cui lo spettatore viene e conoscenza degli incubi che tormentano Lamox. Le zone d’ombra sono prevalenti nella prima parte per poi attenuarsi man a mano che il passato affiora. Il film si struttura così come un lungo viaggio nell’interiorità di Lamox, un viaggio per liberarsi dai fantasmi del passato, con la ferrovia che perde la sua tipica connotazione positiva e diventa il simbolo dell’oppressione e della disumanità. Sarà il ritorno nel luogo della prigionia e l’incontro con uno dei suoi aguzzini, a offrire la possibilità al protagonista di rinascere, lavorando ad una riconciliazione nel segno della pace e della concordia.

Il senso complessivo de Le due vie del destino è la denuncia dell’orrore della guerra che rende gli uomini spietati e malvagi. Teplitzky è abile nell’evitare sia la facile retorica che lo spicciolo moralismo (un esempio: nelle scene di tortura non si cade nella trappola della spettacolarizzazione), mantenendo una distanza emotiva che permette allo spettatore non solo di partecipare al dramma umano dei personaggi, ma anche di riflettere sugli eventi. Una mano, in questo senso, gliela forniscono i due interpreti principali, Colin Firth e Nicole Kidman, attori mai sopra le righe, perfettamente a loro agio in ruoli nei quali le dinamiche interiori emergono soprattutto attraverso l’espressività dei gesti e dei volti.

Michele Nardini
Michele Nardini
Michele Nardini è laureato in Cinema, Teatro e produzione multimediale all’Università di Pisa e ha alle spalle un Master in Comunicazione pubblica e politica. Giornalista pubblicista, sta maturando esperienze in uffici stampa e in redazioni di quotidiani, ma la sua grande passione rimane il cinema

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