Silvio Muccino alla sua terza regia mette in scena il suo metodo, utilizzando come pretesto la relazione di un life coach con i tre candidati di uno show televisivo, il cui percorso sarà quello di raggiungere obiettivi e desideri nell’arco di sei mesi. Giovanni Canton (Silvio Muccino) si materializza al centro dello studio dopo uno zapping a tutto schermo che ne definisce subito l’origine catodica e illusoria, è un’analogia sin troppo semplice con la costruzione di un personaggio dal passato evanescente, ma gli serve per caratterizzare il suo ruolo di burattinaio dietro la macchina da presa, mentre guida passo passo i suoi allievi nella parte che devono interpretare.
La dinamica non è esattamente quella del reality, perché quando non è ambientata in aula, ha quasi sempre luogo nel suo appartamento mentre fornisce istruzioni specifiche all’assistente Matilde (Nicole Grimaudo), una sorta di segretaria di edizione che annota tutti i “giornalieri”, mentre le cavie cambiano le regole del proprio teatrino via via che assimilano nuove nozioni, così da definire l’andamento episodico del film attraverso il menage famigliare di Luciana (Carla Signoris), autrice a tempo perso di romanzi soft porno e quello di Ernesto (Maurizio Mattioli) sessantenne alla ricerca di un posto ancora attivo nel mondo del lavoro e che non vuole abdicare al pensionamento.
La terza cavia diventerà proprio Matilde, invischiata in una relazione clandestina con il suo capo e spaventata dalla possibilità di perderlo; sarà Canton a trasformarla in una mistress, in una sequenza che sembra l’allestimento di una regia televisiva, con la Signoris che gli suggerisce il copione erotico via auricolare mentre Canton stabilisce tempi e situazioni.
Forse Muccino avrebbe potuto sfruttare in modo più radicale questo aspetto, trasformando tutto in un gioco di rappresentazioni sul bordo della crudeltà, con la televisione in un ruolo centrale nel sistema di relazioni. Sfortunatamente non si avvicina neanche alla farsa e l’ipotesi che si tratti di trash consapevole, viene disinnescata immediatamente dai quattrini del ministero che garantiscono il solito prodotto asettico e familistico di regime dove Muccino si vuole troppo bene per assumere anche solo il riflesso di un’anima se non luciferina, almeno sfaccettata; ma al centro, oltre all’ego di un personaggio che assomiglia più a quello di un sacerdote in crisi, c’è il suo metodo come regista. Mosso da un’energia narcisista non dissimile da quella che alimenta lo spirito di alcune fiction televisive nostrane, Le leggi del desiderio non corrode (come dovrebbe fare il trash) e genera un teatrino di situazioni che non lascia alcun segno, svanendo nell’immagine di un incontro immerso tra luci e riflessi, che potrebbe far parte dello zapping che apre il film.