Ciliegi in fiore costretti fra palazzi di periferia e treni in corsa.
“I fiori di ciliegio alludono alla morte. Non so di altri alberi che fioriscono in modo così vibrante e disperdono i loro petali così all’improvviso.
E’ questo il motivo per cui le persone sono affascinate dai fiori di ciliegio, e sono costrette a riflettere di nuovo sulla propria vita? ”
Immagine ricorrente in quest’ultimo lavoro di Kawase Naomi, metafora evidente ma mai esibita, conferma la scelta vincente del suo cinema che è sommessa sobrietà di racconto e scoperta, ogni volta nuova, della sua appartenenza alla materia di cui è fatto il mondo.
Sulla lunga strada del cinema giapponese Kawase Naomi ha incontrato Ozu Yasujirō e dal Maestro ha imparato a cogliere il movimento profondo della storia con la logica della poesia.
Nel suo cinema rivive una grande tradizione a cui la regista attinge con naturalezza e capacità innovativa, e la voce infantile dell’incipit di Sakura no mori no mankai no shita, (Sotto i ciliegi in fiore) 1975, capolavoro del grande Shinoda Masahiro, riecheggia in alcuni passaggi chiave del suo An (il lungo titolo italiano, Le ricette della signora Toku, assolve debitamente all’inclinazione tutta occidentale per gli eccessi didascalici):
” E’ la festa della fioritura dei ciliegi che, a partire dal periodo Edo, é diventata una scusa per far festa. Prima questi alberi spaventavano. Immaginatevi soli sotto i ciliegi in fiore …”
Se per Shinoda l’immersione nella dimensione mitica serve ad introdurre l’antica leggenda giapponese che parla di uno spirito maligno femminile omicida che si sveglia con la fioritura dei ciliegi selvatici, e l’elemento meraviglioso, con la sua lettura in chiave eziologica, recupera storie ancestrali che spiegano usi e costumi contemporanei, nonché fobie e materializzazioni dell’inconscio, Kawase resta solidamente ancorata al presente in una visione zen del mondo, e le sue piccole storie si snodano con la brevità e la leggerezza di un haiku.
Tornando a vederli
i fiori di ciliegio, la sera,
son divenuti frutti
Anche i suoi ciliegi sfioriscono presto a favore di foglie verdi e frutti, ma la domanda è importante: “ Perché i fiori di ciliegio cadono così presto? ”.
Nel lungo viale che corre davanti al negozietto di dorayaki – dolcetti ripieni di pasta di fagioli azuki, l’an, abbreviazione per anko, ricetta molto difficile da fare nel modo giusto – che Sentaro gestisce senza troppa convinzione e abilità, grandi ciliegi in fiore formano un bianco pergolato.
E’ il profumo dei fiori, misto a quello dei dolci, che attira la signora Toku, di passaggio per la sua passeggiata settimanale. Piccola donna molto anziana, discreta, dolcissima, sa fare un an ineguagliabile e vorrebbe lavorare, non importa se per pochi yen, perchè si deve comunque dare un senso alla propria vita, anche se non baciata dal successo. E’ la sua massima e sarà il suo messaggio per Sentaro e Wakana, quelli che diventeranno i nuovi amici per un tempo breve come quello dei fiori di ciliegio.
La necessità di contatto e calore umano e il peso della loro assenza, motivo costante nel cinema di Kawase, tornano in un film all’apparenza semplice e disadorno, di una sobrietà ricca di grazia e pudore nel parlare di sentimenti.
C’è sempre un retroterra nel suo cinema, un vissuto drammatico, complesso, ormai cicatrizzato ma non per questo meno penoso.
In ognuno dei tre protagonisti, Toku (Kirin Kiki), Sentaro (Masatoshi Nagase), e la giovane Wakana (Kyara Uchida) c’è una sofferenza che traspare in filigrana, un non detto che si lascia intuire e li mette in una relazione gestita con la naturalezza della vita vera, quella in cui capita di accorgersi, alla fine di un incontro, quanto questo fosse importante, e ci si ritrova a chiedersi da dove eravamo partiti e perchè ci siamo persi per strada.
Sono storie di vite qualsiasi che virano all’insuccesso, può essere una malattia (il morbo di Hansen, comunemente detto lebbra, per Toku, vissuta cinquant’anni in sanatorio e ancora inseguita dal pregiudizio che la isola), un fallimento da cui non si risale più per Sentaro, costretto a lavorare a tempo indeterminato per il suo creditore, una famiglia anaffettiva che non la manda al liceo per Wakana, e così lei va in giro lo stesso con la divisa delle amiche più fortunate, ma poi resta sola quando queste la lasciano per andare a scuola.
Le misteriose sinapsi della vita li avvicinano e i tre tessono affetti nuovi e solidali, riportano a galla valori che la banalizzazione del quotidiano non scalfisce e sono la forza per sostenere la frustrazione e l’indifferenza del tempo e degli uomini e la capacità di dare valore alle piccole cose di cui spesso non ci accorgiamo.
Un canarino, un dolcetto ripieno di marmellata di fagioli rossi, un petalo di ciliegio finito dentro il dorayaki, diventano così oggetti di uno spazio comune, allestito lentamente dal caso per fondere realismo e poesia in un’unica formula.
Senza toccare i vertici del suo capolavoro, Mogari no mori (The mourning forest ) 2007, Kawase aggiunge una pagina coerente al suo cinema del silenzio, tornando a mostrare “ ciò che non è visibile ”:
“ Sarà contraddittorio sostenere che un film possa mostrare ciò che non è visibile, ma io credo che sia vero. Prendiamo per esempio il vento: è un elemento non raffigurabile, ma se ne può intuire la presenza da tutti gli effetti che genera, da tutti i movimenti che determina. E’ possibile proprio perchè un film non è un riquadro a sé stante nel flusso della realtà, ma uno dei suoi tanti momenti, collocato proprio nello scorrere stesso della realtà.”
E allora An può essere, ancora una volta, quello “sguardo sulla realtà velata dal quotidiano” a cui Kawase Naomi fa spazio nel suo cinema minimale, in cui racconta l’uomo e lo fa per raccontare soprattutto il cinema: “ Attanaglia l’anima di chi vive nei nostri ricordi, si avvinghia al tempo, e così dà vita a una testimonianza unica. Avvolgi la tristezza in un abbraccio, custodiscila in te, continua a ricordarla e registrala. Il cinema … realtà violentemente avvinta alla memoria ”.