Laurent Tirard torna a confrontarsi con le strisce di René Goscinny dopo Il piccolo Nicolas e i suoi genitori, perdendo completamente per la strada il minimalismo delle illustrazioni di Jean-Jacques Sempé e spingendo ancora di più sui colori ultrapop e iperrealisti; i primi anni sessanta de Les vacances du petit Nicolas sono quelli vintagisti per le masse, con tanto di Bert Kaempfert a fare da colonna sonora per il primo ingresso in spiaggia della famigliola, con la sua lounge music scritta per le coppie di cinquant’anni fa.
Come nel primo episodio si cerca di evitare la retorica alla Jean-Pierre Jeunet riproducento il teatrino famigliare a partire da un’energia onestamente fumettistica, ma allo stesso tempo, manca l’aria per aprirsi all’occhio infantile, al posto del quale guadagna spazio una frammentazione episodica ancora più vorticosa che cade rovinosamente nella trappola della rivisitazione retorico-cinefila; se la parodia di Shining attraverso la figura della piccola Isabelle è gustosamente ironica pur nella dimensione freddissima dell’eccesso pop, il numero musicale della madre di Nicolas durante la festa allestita dal regista italiano è un imbarazzante frammento di avanspettacolo che si apre a tutti gli stereotipi immaginabili, inclusa la figura interpretata dallo stesso Zingaretti, talmente caricata da risultare ingombrante e priva di quello scarto tra piani di realtà capace di innescare la miccia della comicità; giusto per dire che la distorsione estrema dei riferimenti non salva il film da uno stucchevole sapore retrò
Al netto di alcuni frammenti di puro divertimento, come quello del padre di famiglia costretto a dormire con la nonna che russa, merito della sodale montatrice Valerie Deseine capace di infondere un delirante senso del ritmo ai piani della messa in scena, il film di Tirard si sfalda nel bozzetto cartolinesco, con quel vago sentore fine ottanta / primi novanta (Radio Days, Adrenaline) che lo relega nello stesso spazio occupato da operazioni come The Artist, dove il riferimento alle storie del cinema (da quello muto a Jacques Tati, il cui Mon Oncle era anche una critica spietata a qualsiasi forma di decorativismo) non è tanto un omaggio a qualcosa che fu, ma replica di uno sguardo mai stato.