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Lemonade di Ioana Uricaru – Berlinale 68, Panorama: la recensione

Prima di questo debutto sulla lunga distanza, Ioana Uricaru aveva realizzato alcuni cortometraggi e soprattutto preso parte nel 2009 a “Amintiri din epoca de aur” (Racconti dell’età dell’oro), l’opera collettiva diretta da alcuni giovani autori del cinema rumeno con qualche breve film alle spalle, dietro la guida di Cristian Mungiu che produceva, scriveva la sceneggiatura di tutti i segmenti e ne dirigeva uno.

Mungiu torna a produrre la Uricaru per la sua prova più importante, anche grazie alla collocazione di prestigio nella sezione Panorama della Berlinale 68 e lo fa fuori dal contesto politico e culturale del suo cinema, accordandosi in un certo senso all’esperienza cosmopolita della regista, i cui studi in cinema e produzione televisiva si sono compiuti in California.
Lemonade è una co-produzione tra Romania, Canada, Germania e Svezia e pur ambientandosi in una non precisata città degli Stati Uniti è stato girato vicino al confine canadese.
Dal cinema di Mongiu e da quello rumeno in generale, la Uricaru desume uno stile asciutto, focalizzato sul personaggio e sulla relazione tra individuo e apparato sociale; cambia il contesto e la prospettiva, quella di un’immigrata in terra straniera interpretata da Mãlina Manovici (già con Mungiu per Baccalaureat) che nel tentativo di ottenere la Green Card, si scontra con un sistema burocratico e culturale diverso da quello previsto e soprattutto non così distante dall’inteccio di pregiudizi e corruzione che innerva le città della romania. 

Evidente quindi la connessione con il cinema delle proprie radici, in quello scambio spesso traumatico tra desiderio e stato di diritto. 
Film apparentemente semplice, fatto di pochi elementi ed eroso da un rigore interno mantenuto fino all’ultima inquadratura,  Lemonade mette in relazione lo spazio fisico con uno sguardo che non intende modificarne la morfologia, tanto che le aperture dell’orizzonte paesaggistico che anche il cinema americano indipendente più crudo sovrappone ad un progressivo svuotamento interiore, qui vengono chiuse da un occhio irrimediabilmente claustrofobico e dalla congelata fotografia del tedesco Friede Clausz (24 Wochen

Il punto di vista privilegiato è in fondo quello di un interrogatorio, dove la trentenne Mara diventa oggetto e non soggetto, non importa se a guardare è il funzionario del centro immigrazione, il marito o due poliziotti intenti a stabilire alcuni limiti procedurali, perché la qualità percettiva è quella della distanza che preclude e sopratutto precede qualsiasi possibilità di stabilire un contatto empatico. 

Ciò che rende Lemonade un film sul cinismo dello sguardo, nientaffatto cinico, è proprio l’attenzione e la centralità che la Uricaru offre a Mãlina Manovici. La sofferenza, il dolore, l’impossibilità di comunicare la verità di un sentimento e soprattutto il rapporto con Dragos (Milan Hurduc), il figlio trasferitosi dalla Romania agli Stati Uniti dopo la sistemazione matrimoniale della donna, si infrangono con la continua delegittimazione che questa impietosamente subisce da una cultura basata sul sospetto, la negazione delle differenze e l’assimilazione di qualsiasi anomalia. 
Non è assolutamente un caso che la Uricaru abbia scelto Steve Bacic, attore croato naturalizzato canadese, per interpretare la parte di Moji, il funzionario dell’immigrazione incaricato di verificare se il matrimonio tra Mara e Daniel (Dylan Smith) sia legittimato dalla buona fede oppure sia stato allestito per mutua convenienza.
 
L’accento di Moji non è secondario in un film che lavora con molta attenzione anche sul suono, perché serve a deteminare una distorsione percettiva del concetto di vicinanza e di familiarità linguistica; da una parte questa sembra stabilirsi su un piano fonetico e sulla somiglianza di un inglese pronunciato da due individui dell’est, dall’altra i toni e i modi di Moji rivendicheranno progressivamente una collocazione duramente conquistata all’interno della societa statunitense, facendo propria la retorica contro l’immigrazione che ha caratterizzato la campagna presidenziale di Donald Trump nel 2016. 

Senza contrapporre modelli diversi, la Uricaru ci mostra una società impermeabile, irrimediabilmente agganciata ai bisogni primari e barricata contro l’esterno, tanto da trasformare lo spazio dell’accoglienza famigliare in un improvviso teatro dell’abuso. 

Le donne sempre al centro nel cinema di Mungiu, trovano nel personaggio di Mara una caratterizzazione definitiva e disperata. Due sono le sequenze che concentrano il “metodo” della regista rumena, tra rigore e prudenza, consapevolezza e un eccessivo impiego della sintesi, del tutto comprensibile per un’opera prima. 

Quando Moji spinge Mara ad un brutale contatto sessuale nell’abitacolo della sua macchina, la donna libera la furia e il disgusto dopo un lungo interrogatorio condotto sul crinale dell’abuso. Sullo sfondo un paesaggio industriale mai completamente a fuoco e il suono sordo delle macchine, scolpito dal lavoro di Kai Tebbel, uno dei sound designer tedeschi più importanti degli ultimi vent’anni, che in questo caso contribuisce a chiudere l’esperienza di Mara come se fosse osservata dall’interno di una camera iperbarica.

Se il minimalismo della Uricaru, nella sua accezione migliore, sembra ancora troppo sottile e al di quà dell’esplosione emotiva, è interessante il contrasto tra la dimensione asettica degli ambienti, l’antropologia chirurgica dei movimenti, con la centralità mobilissima e sensibile del volto di Mãlina Manovici; Mara esce dal campo visivo insieme al figlio, lasciando al centro una casa disadorna, completamente da sistemare. Semplice e splendida immagine del vuoto che attraverso un approccio persistente alla durata, mette insieme familiarità ed estraneità in una sola inquadratura.

 

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